Post più popolari

sabato 19 settembre 2015

Le storie della stanza 5... Film: Cisanello, agosto 2015


Cisanello, agosto 2015

Ho fissato quella parete per giorni e per notti. Interminabili notti e altrettante interminabili sequenze buie di immagini. Quelle dei miei incubi, dei pensieri negativi, sicuramente dovuti ai postumi dell'anestesia, a quelli della morfina e di tutta la miscela di farmaci somministrati via endovena, con interminabili flebo.


I brevi momenti di preghiera, consentiti dal mio Credo, hanno alleviato il grigiore di quello strano scorrere di miserie. Come il vento di libeccio, con la sua azione poderosa, riesce a portare via tanta nuvolosità in poche ore.

Lo schermo-parete, così è diventato, a momenti alterni, cinema tridimensionale in quadricromia e giornale in solo bianco e nero: talvolta più nero del suo stesso stato, per far intendere meglio la precarietà della nostra breve esistenza, con le proprie immagini piatte, senza dimensioni e prospettive, rimaste impresse nei fotogrammi di una pellicola usurata e contenente figure di mostri dalle ampie fauci, pronte a ingoiarmi insieme alle mie paure.

Come fuori senno ho riso, pianto e meditato in contemporanea, raccogliendo informazioni e dati per poi poter riportare il tutto su questa pagina. Ho immagazzinato il buono nel poco spazio disponibile delle mie meningi e ho cestinato il cattivo nella mia cartella di trash biologica. Ne sono usciti fuori quattro racconti. 

Insomma, sceneggiature che, a raccontarle, raffigurano epiloghi di un "drogato", certo non per mia scelta. Episodi che possono capitare a chiunque, visualizzabili in semplici sogni o atroci incubi. Cose strane che mi hanno fatto riflettere. Pertanto le ho volute raccontare.


TC 


Potrete leggere i racconti facendo clic sui titoli sottostanti:








e... prima dell'intervento chirurgico:

Il tarlo ha intaccato il Ciocco!

I racconti sono offerti in lettura gratuita da:

Fotocopiatrici Usate Garantite

martedì 8 settembre 2015

6° Cap. - "Scorfano, il graffitaro" - Da "Le proiezioni nella stanza 5" di Tiziano Consani




VI Capitolo


L'evento sconvolgente


Quel giorno del 15 dicembre 2014, alle ore 16:30, Cristian si trovava in casa, da solo. Dopo essersi acceso il fuoco nel caminetto, si era trattenuto sulla seduta posta all'interno del grande focolare della cucina e stava fissando la fiamma che scoppiettava allegramente, ben alimentata dalla legna d'ulivo stagionata. Si mangiucchiava una crosta del buon pane integrale e casalingo che faceva sua madre e che aveva recuperato rovistando nella vecchia madia di famiglia: un gioiello in massello di noce, tenuto funzionale più per mantenere in vita il ricordo dei nonni non più presenti che per contenere il pane: infatti era sempre vuota ed era già qualcosa se, sollevandone il piano superiore mobile, si riuscisse a trovare un rimasuglio di buon pane. Così, rosicchiando quel residuo di pane casereccio, rimembrava il "suo" giorno fortunato con Silvia, mentre con il cellulare, provava e riprovava a contattarla. Già fin  dalla sera prima, la ragazza sembrava essersi volatilizzata.  Gli aveva detto che sarebbe andata a fare una camminata fino alla Pieve e sarebbe ritornata da lì a un paio di ore.  Dopo circa tre ore lo aveva contattato con un SMS scrivendogli che non sarebbe rientrata perché erano tornati in città i genitori, dopo un periodo trascorso a Roma e, con il pullman extraurbano li avrebbe raggiunti. Poi, il giorno successivo, sarebbe tornata da lui insieme a loro. Eravamo già nel pomeriggio ma Silvia non rispondeva né al telefono mobile, né al fisso dell'appartamento sul lungarno. Ad un certo punto, udendo il frastuono che cominciò a provenire dall'esterno, Cristian si precipitò verso la finestra. Non credendo ai segnali visivi che i suoi occhi traducevano al cervello, aveva volato la scala che, dalla stanza dove si trovava in quel momento, portava al piano superiore. Si recò di corsa nella camera più grande, quella che disponeva di un terrazzino dove avrebbe potuto osservare meglio e da un livello di visibilità migliore, ciò che aveva visto prima, dalla finestra del piano terra. La situazione che si presentava fuori era apocalittica e pareva che stesse verificandosi la fine del mondo. Raggi di fuoco partivano e arrivavano contemporaneamente dal cielo: colpivano bersagli mobili che sorvolavano la zona ad alta velocità. La valle che guardava verso il mare e terminava la sua traiettoria nel porto di Livorno era invasa da lingue di fuoco che, ad ogni bersaglio mobile centrato, creavano immense esplosioni che illuminavano a giorno l'oscurità prodotta dal pomeriggio invernale. Inizialmente pensò, fantasiosamente, a un attacco alieno ma subito concretizzò che si trattava di un vero e proprio bombardamento: una guerra reale e terrestre; una terribile battaglia che si stava verificando fra cielo e mare sopra la sua testa e a quelle di molte altre persone che in quel momento stavano vivendo quella terribile esperienza. Ogni velivolo colpito esplodeva nel cielo quasi istantaneamente e le parti meccaniche infuocate cadevano a terra innescando incendi nel bosco intorno. Un enorme e vicino boato avvisò Cristian che qualche grosso frammento era caduto sul tetto della propria casa e, sicuramente, lo aveva sfondato. Prima di  precipitarsi al piano di sopra per verificare l'entità del danno, un assurdo istinto lo fece fermare per mettere un secchio sotto al rubinetto dell'acquaio di cucina, in modo da avere acqua a disposizione per fronteggiare eventuali incendi. L'oggetto caduto sul tetto era un frammento meccanico acuminato che si era conficcato fra il soffitto ed i travicelli da poco restaurati e che, pur sfondando il soffitto a tetto, a parte i calcinacci sparsi ovunque nella stanza, non aveva prodotto eccessivi danni. Nell'istante che il ragazzo cercò di mettere a fuoco ciò che stava accadendo, una quantità elevata di frammenti metallici di piccole dimensioni, come fossero chicchi di grandine, si rovesciarono rumorosamente sul tetto della casa. Attirato da un altro rumore più forte e assordante, si precipitò ad aprire la finestra della stanza nella quale si trovava e vide, nel cielo, un grosso elicottero militare a doppia elica. Poté constatare che fosse a non più di cento metri davanti alla sua visuale. Cristian non fece in tempo a raccogliere le idee che un razzo colpì l'elicottero che, in pochi secondi, avvolto in una palla di fuoco, sprofondò, insieme al suo equipaggio, in fondo alla vallata. 
Tutto avveniva in cielo ma molti di quei micidiali raggi di fuoco venivano dal mare, dal porto livornese. Cristian era solo in casa e terrorizzato, il suo cervello roteava come impazzito, pensava a Silvia, a dove fosse.
La corrente elettrica era andata via, il cellulare non aveva alcun campo. Sgomento, il ragazzo, osservando la scena che si susseguiva sopra di lui, poté capire che  quel campo di battaglia si estendeva in vasta area dei territori pisani e livornesi. Rimaneva da capire il perché di tutto ciò che stava accadendo.
Cristian ci arrivò in parte da solo, dopo un breve ragionamento e collegando insieme tutti i pezzi del puzzle che nei mesi precedenti aveva trovato, sparpagliati, lungo il suo cammino mentre, passeggiando in paese e sui monti cercava idee e finanziamenti per dare vita ai suoi soggetti murari. Ma gli mancava il più e il meglio...



Per leggere il settimo ed ultimo capitolo, completo di epilogo, fare clic sul tasto rosso qui sotto:



Autore: © Tiziano Consani 


Questo racconto, in SETTE capitoli, è offerto in lettura gratuita da: 




Il racconto è frutto della fantasia dell'autore. I personaggi che lo animano, i loro nomi, i soprannomi e i fatti accaduti, sono tutti inventati, mentre i luoghi pubblici e quelli geografici sono reali. Come reali sono gli artisti citati e le loro opere.


La produzione è sempre quella e ultima, della "Stanza n. 5" ...


Tutti i diritti sono riservati.

lunedì 7 settembre 2015

5° Cap. - "Scorfano, il graffitaro" - Da "Le proiezioni nella stanza 5" di Tiziano Consani



V Capitolo

L'estate del 2013


Il giorno successivo, la maturità non fu un evento brillante per Cristian, perché la mattina, giorno della prima prova scritta di esame, sulla sua e-mail, il messaggio di istruzioni pervenutogli da Igor, aveva messo in agitazione il ragazzo. Poche parole, una data precisa, un luogo preciso, una precisa commissione:
"Fra un anno, il giorno 10 luglio 2013 - Ore 15.00 - Palazzo Ducale di Venezia - Stanza esposizione di Manet - Finestra centrale con vista sulla Basilica di Santa Maria della Salute - Scatta tre foto al panorama e inviale all'istante all'indirizzo e-mail dal quale stai ricevendo il seguente messaggio. Per il tuo disturbo, appena rientrerai dalla vacanza, troverai il buon servito, a Tre Colli, in una busta appoggiata sopra alla trave portante del rudere della Capanna dello Zoppo. Igor non ripete mai e fa sempre quello che promette!".

Dopo aver letto, in particolare l'ultima frase, Cristian ripensò al gesto, fatto con la lama del coltello, che Igor gli aveva puntualizzato, la mattina precedente, a La Foce e l'agitazione cominciò a impossessarsi del ragazzo. Pensò a come avrebbe potuto usare quel messaggio scritto come prova per denunciare Igor. Ma chi l'avrebbe creduto, poteva essere preso come uno dei tanti messaggi di spam inviati da postazioni web di difficile localizzazione. Anche raccontare il tutto non sarebbe stata una buona idea perché Cristian non aveva un aspetto molto raccomandabile e di fronte a polizia e carabinieri, considerando che era, anche da loro, conosciuto per le numerose segnalazioni dovute ai suoi murales abusivi, non avrebbe avuto credibilità sufficiente a poter far partire un minimo di indagine. Di fronte a un magistrato, Cristian era già solo lui stesso un elemento sospetto. Fu così che il ragazzo, considerato che per sua fortuna non gli era stato chiesto di uccidere nessuno e che, alla fine, il lavoro da fare si limitava a tre scatti fotografici, si tenne tutto per sé, fece scorrere l'anno, disegnò i suoi graffiti dove gli capitava, di notte ebbe incubi su incubi vedendo Igor che, con il suo coltellaccio, gli incideva la carotide e continuò a sperare di trovare una ragazza, sperando di non dover mettere in pericolo anche lei. Quest'ultima, come  piovuta dal cielo, o meglio fra i banchi di scuola,  come fosse uscita da uno dei muri sui quali era solito disegnare e avesse preso vita, fu proprio Silvia: la ragazza irraggiungibile dei sogni a occhi aperti, fatti per mesi da Cristian. Quel viaggio, insieme a tutto il contorno, avrebbe potuto essere un altro sogno e, in  buona parte, lo fu veramente...

I primi due giorni trascorsi a Venezia, che fecero seguito a quanto poté accadere nelle precedenti due notti insonni, a causa della preoccupazione per il dover affrontare quella strana incombenza, riguardarono interessi che furono più, anatomici, verso Silvia che rivolti alle opere d'arte. Cristian si dette un gran da fare, ben corrisposto dalla sua conquista ufficiale. Poi, però, il terzo giorno, la prova del nove non ebbe esito fra le profumate e morbide lenzuola di seta del costoso quanto gratuitamente offerto e super climatizzato albergo, a sei stelle, di Piazza San Marco,  ma dentro il lì vicino Palazzo Ducale.

Appena il tris fotografico fu inviato via e-mail, sullo smartphone di "Scorfano", ormai lo aveva chiamato così, per ben due notti, intimamente indaffarate, anche la dolce Silvia, pervenne un messaggio SMS con la seguente parola: "Грэзи", che il traduttore automatico individuò come un "Grazie" scritto in lingua russa.

Cristian e Silvia ebbero un'altra intera notte a disposizione, per godersi alla grande i piaceri amorosi che la suite messa a  loro a completa disposizione, poté, al meglio, offrire.

Al ritorno, dopo aver lasciato la sua bella nell'appartamento in città, dove lei risiedeva, il ragazzo si recò subito in paese alla vecchia Capanna dello Zoppo e vi trovò, dove convenuto, quello che sperava non potesse veramente esserci. Cioè ben centomila euro in duecento foglioni, veri, da cinquecento euro ciascuno.

Certo che centomila euro, senza considerare i quasi duemila che Igor consegnò a Cristian, prelevandone una manciata dalla sua borsaccia, la mattina dell'incontro a La Foce, erano una bella cifra e non potevano essere il compenso per  aver fatto tre foto... Il ragazzo intuiva che la posta in gioco fosse ben altro, ma non riusciva  a capacitarsi di quale o di che cosa potesse trattarsi. Chissà che quei soldi,  non fossero che spiccioli per chi gli aveva passato la commissione e lui era stato solo sfruttato e liquidato con poco per fare in modo di non dare, al tutto, il vero peso che avrebbe dovuto avere, depistando eventuali indagini da parte di chi ci avesse indagato sopra.

E quel SMS in russo? Che cosa centravano i russi? A che cosa potevano servire quelle tre sue foto, scattate e inviate dal Palazzo Ducale di Venezia? E poi, la persona  con l'aria del buttafuori, che era sempre davanti alla porta del lussuoso albergo, in pieno centro di Venezia, dove soggiornarono per tre giorni di seguito Cristian  e Silvia, che fissava la ragazza da capo a piedi, ogni volta che gli passavano davanti?  Era lì per pura casualità, solo per apprezzare le perfette misure della bella Silvia, o altro? Chi era veramente il baffuto Igor e che fine aveva fatto? Perché dopo quella domenica, di un anno prima, non si vide più in giro e sparirono anche tutti gli altri uomini che cercavano lavoro in paese?

Tante, troppe domande, invadevano la testa di Cristian, tanto da farlo decidere di andare con il malloppo, l'SMS ancora memorizzato sullo smartphone, la copia dell'e-mail ricevuta l'anno precedente, le poche telegrafiche istruzioni ricevute sui pernottamenti la mattina stessa del soggiorno e un riassunto scritto del suo racconto, a suonare il campanello della caserma dei carabinieri di paese, alle cinque della mattina successiva, dopo non aver chiuso occhio per tutta la notte.

Lì per lì, l'appuntato, sempre insonnolito, che ricevette in primis Cristian, ben conosciuto ormai anche in paese con il nomignolo con il quale l'avevano ribattezzato, pensò a uno scherzo, tanto che sul primo, sbadigliando, gli disse: "Scorfano cos'hai combinato a quest'ora, spero che tu non sia venuto a imbrattare il muro esterno della caserma!",  ma appena vide il malloppo in contanti che il ragazzo gettò sulla scrivania del militare, quest'ultimo chiamò subito il comandante della caserma e, il maresciallo in questione, tempestò Cristian di domande.

Dalla caserma dei Carabinieri di Calci, attraverso la prefettura, il plico di Cristian Berti era sul tavolo riunioni  della procura pisana. In breve tempo tutte le importanti cariche del Ministero dell'Interno erano state avvisate. Il reparto radar dell'Accademia Navale di Livorno, dopo una riunione con alti ufficiali,  cominciò a far circolare informazioni che viaggiavano crittografate avanti e indietro sotto il controllo della NATO. Tutti i reparti militari erano stati mobilitati e l'FBI fu informato per condurre indagini di controllo.
Dopo l'interrogatorio fatto a Cristian sul fatto degli scatti fotografici a Venezia, gli inquirenti non individuarono assolutamente niente che potesse avere una connessione logica con la deposizione del ragazzo. Tutto sembrava estremamente fantasioso e Cristian fu fermato nel carcere di Don Bosco, per alcuni giorni, solo al fine di cercare di capire dove, effettivamente, avesse preso quei centomila euro. I soldi furono immediatamente sequestrati mentre fu aperta, su Cristian, nel frattempo trasferito ai domiciliari, un indagine più approfondita che non ebbe tempo di arrivare al suo compimento. Nel mentre che gli inquirenti, lentamente, indagavano da oltre  un anno senza trovare niente che potesse scagionare "Scorfano" da un'accusa certa per essersi inventato una storia che non stava né in cielo né in terra e per giustificare quella grossa somma di denaro illecitamente guadagnato in qualche malo modo, ci fu l'attacco, inaspettato, terribile e devastante. Chi avrebbe mai pensato che tre foto scattate un anno prima da un finestra di un museo veneziano, verso la basilica di Santa Maria della Salute, fossero state l'innesco di quello che stava accadendo quel terribile pomeriggio del 15 dicembre 2014?

Eppure, Cristian, con le sue strane intuizioni, impregnate dal fatto di aver ricevuto, crescendo, una educazione cattolica, aveva ipotizzato che il buffone di corte, rappresentato dal "Pifferaio" di Manet, l'incentivo alla trasgressione amorosa proposta dall'opera "Olimpia" e la basilica di Santa Maria della Salute vista come l'opposizione a un mondo incancrenito dove l'unico lasciapassare alla salvezza, per i detentori della fede, possa essere solo la preghiera intesa come elemento forgiante e riparatore di  un mondo fatto esclusivamente di interessi economici occulti, potevano essere, invece, una simbolica trilogia per inscenare un attacco clamoroso, proprio ora che il super controllo statunitense era reso vulnerabile dalla crisi economica e da quella, ancora più devastante, dei valori umani. Questo con la fantasia ma, realmente, era improponibile da raccontarsi a una scimmia, figuriamoci agli inquirenti dell' FBI!

Cristian si sentiva colpevole di essersi prestato a qualcosa di illecito, ma, nello stesso tempo, non poteva sapere che lui, in tutto ciò, direttamente, non c'entrava assolutamente niente e che quelle tre foto, in effetti, erano state solo un diversivo per distrarre tutto e tutti con un estroso personaggio, quale lui era, mentre qualcun altro si occupava di ubbidire espressamente agli ordini.



Per leggere il sesto capitolo fare clic sul tasto giallo a fianco: ........


Autore: © Tiziano Consani


Questo racconto, in SETTE capitoli, è offerto in lettura gratuita da:


Fotocopiatrici Usate Garantite


Il racconto è frutto della fantasia dell'autore. I personaggi che lo animano, i loro nomi, i soprannomi e i fatti accaduti, sono tutti inventati, mentre i luoghi pubblici e quelli geografici sono reali. Come reali sono gli artisti citati e le loro opere.


La produzione è sempre quella e ultima, della "Stanza n. 5" ...


Tutti i diritti sono riservati.






domenica 6 settembre 2015

4° Cap. - "Scorfano, il graffitaro" - Da "Le proiezioni nella stanza 5" di Tiziano Consani



IV Capitolo



Fine primavera 2012


Erano le sei di mattina della seconda domenica di giugno, il cielo era meravigliosamente sereno, Cristian si era svegliato presto desideroso di fare una passeggiata sui suoi monti. L'aria era fresca e asciutta e l'essere prossimi al solstizio estivo rendeva l'olfatto sensibile ai profumi della vegetazione ormai sfiorita. La clorofilla colorava di intenso verde tutto ciò in cui l'occhio, guardando intorno, poteva appagarsi. L'idea era quella di arrivare a piedi fino a La Foce, bere della buona acqua corrente alla polla che si trovava a circa metà del sentiero sterrato e raggiungere la destinazione, per poi fermarsi qualche ora a studiare gli ultimi ritocchi di preparazione all'esame di maturità che sarebbero iniziati la mattina successiva con la prima prova d'italiano. Tutto andò come Cristian si era prefissato finché non arrivò al prato sulla sommità del sentiero: lì c'era Igor che sembrava lo aspettasse da tempo, visto che la prima cosa che gli disse, con tono di rimprovero: "Pensavo che ormai tu non arrivassi più!", al che, il ragazzo, ne fu abbastanza turbato e capì, che il giorno dopo, agli esami, avrebbe dovuto arrangiarsi con quel che si sarebbe ricordato e che il programma di quella mattina, a La Foce, sarebbe stato sicuramente a sorpresa.
L'uomo baffuto, con la faccia rugosa e avvezzo alla montagna, aveva in testa un cappellaccio di paglia sfilacciato, consumato e, in parte, forato in alcuni punti; teneva in mano un cantuccio di pane raffermo e lo mangiava mordendolo voracemente mentre affettava con un coltello a serramanico, affilato come un rasoio,  un salame toscano di almeno dei centimetri di diametro, in ruote di spessore di circa un centimetro e che, poi, mordeva con grande appetito porgendo, talvolta, il resto della fetta da lui addentata a Cristian che, schifato, rifiutò più volte sforzandosi di non far intravedere alcuna smorfia di diniego che potesse comparire sulla sua faccia. Più volte gli occhi del ragazzo caddero sulla strumentazione radiofonica che Igor aveva montato a circa cinque metri dietro a sé, sulla parte più alta, dove terminava il sentiero e si apriva uno spiazzo di terreno dove la vegetazione di castagni si faceva più rada.
"Se mi hai aspettato, significa che devi dirmi  qualcosa", chiese Cristian all'uomo, soppesando le parole, come se si materializzassero nella pesantezza del piombo, prima che che gli uscissero dalla bocca. "Sì!" rispose quest'ultimo e, senza perdere altro tempo, si mise a parlare: "Avrei bisogno che tu mi aiutassi a decifrare questi due dipinti. So per certo che te ne intendi parecchio!". Tirò fuori dalla tasca dei calzoni due fogli piegati in quattro parti, li aprì e li porse al ragazzo, il quale guardando le copia delle stampe che vi erano raffigurate rimase sorpreso dell'insolita richiesta fatta in quel luogo e in quel contesto.
Le stampe raffiguravano due celebri dipinti di Manet, "Il Pifferaio" e "Olimpia". "Del 1866 il primo e 1863 il secondo!" esplose Cristian all'istante e proseguì: "I dipinti sono esposti solitamente a Parigi al museo d'Orsay ma l'anno prossimo, in occasione della biennale dell'arte di Venezia, verranno esposti fino al 18 agosto  nella celebre città lagunare all'interno delle sale monumentali del Palazzo Ducale. 
"Vedo che non mi ero affatto sbagliato sul tuo conto!" esplose Igor, "Ma quello di cui ho bisogno da te è estremamente riservato" e ponendo davanti agli occhi di Cristian l'affilatissima lama del coltello con cui prima aveva tagliato il salame, l'uomo, compiendo con il polso un gesto che non poteva avere altre interpretazioni, chiarì al ragazzo il peso di quella riservatezza. Poi sollevò il lembo di chiusura di una borsaccia di pelle scamosciata, sudicia e logora, che teneva accanto a sé e, da una tasca dell'interno, tirò fuori una manciata di banconote verdi da cento euro e le mise, senza neppure contarle, in mano a Cristian che, sconvolto per quello che stava accadendo, aveva più voglia di scappare che di stare a sentire ciò che Igor gli avrebbe praticamente ordinato di fare in cambio di quel compenso economico. La richiesta non tardò affatto ad arrivare: chiara e facile. "Fin troppo semplice per non avere un seguito, sicuramente buio e pericoloso.", pensò fra sé il ragazzo. Igor si alzò di scatto e con tono imperativo ordinò a Cristian che nel mese di luglio, dell'anno successivo, si era aggiudicato un bel viaggio premio, per due persone, in una delle più romantiche città del mondo: Venezia. Poi, senza preamboli, disse al ragazzo di togliersi dalle palle perché lui aveva da lavorare ed aveva già perso troppo tempo in chiacchiere. Aggiunse che in qualche modo gli avrebbe fatto sapere la data esatta di partenza e che, insieme alla sua ragazza, si tenessero pronti. Cristian, con ancora in mano la manciata di banconote, cercò di far capire all'uomo che questa cosa non gli interessava affatto, ma il "Fòri da' 'oglioni e subito!", minaccioso di Igor, stranamente espresso in pisano, di sicuro per farsi intendere meglio, non poté essere controbattuto.

Cristian scese a passo sostenuto, quasi di corsa, il sentiero che prima aveva percorso alla rovescia e con molta calma. E, ora, con una buona dose di pensieri, fra i quali quello minore di non avere ancora la ragazza con la quale sarebbe dovuto partire. Si domandava chi fosse, la seconda persona con la quale, fra un anno, avrebbe dovuto compiere il viaggio fino al capoluogo veneto. Tutto sommato c'era tempo e, pensieracci a parte, come se quest'ultimi fossero solo l'incubo di un sogno e il ragazzo aspettasse di svegliarsi da un momento all'altro, si disse che aveva un anno di tempo per trovarsi la "bimba" e andare con lei sulla laguna veneta: ragionamento che gli fece distogliere la mente da tutte le cose negative capitate e pensate precedentemente.



Per leggere il quinto capitolo fare clic sul tasto giallo a fianco.  .........



Autore: © Tiziano Consani
Tutti i diritti sono riservati


Questo racconto, in SETTE capitoli, è offerto il lettura gratuita da:





Il racconto è frutto della fantasia dell'autore. I personaggi che lo animano, i loro nomi, i soprannomi e i fatti accaduti, sono tutti inventati, mentre i luoghi pubblici e quelli geografici sono reali. Come reali sono gli artisti, celebri, citati e le loro opere. Tutti i diritti sono riservati.



venerdì 4 settembre 2015

3° Cap. - "Scorfano, il graffitaro" - Da "Le proiezioni nella stanza 5" di Tiziano Consani




III Capitolo

INIZIO PRIMAVERA 2012


Già dalla primavera scorsa, l'afflusso di turisti dai paesi comunitari verso i numerosi Bed & Brekfast e gli agriturismi locali si era sensibilmente ridotto a causa della sempre più incalzante crisi economica. La maggior parte delle auto che, giornalmente, negli anni passati, circolavano in numero elevato sulle strette strade che da Calci portavano sul Monte Serra avevano targa tedesca, olandese e norvegese ed erano tutte di fascia medio alta. Ma quest'anno, quei mezzi di trasporto, si contavano sulle dita di una sola mano. Cristian, però, aveva notato che i locali adibiti a B&B della della zona erano abbastanza affollati e che, in effetti, altri mezzi circolavano nella zona in abbondanza: auto non di primo grido, anche un po' scassate e tutte con targa dell'estremo est europeo. All'interno non famiglie ma soli uomini: operai in cerca di lavoro. Almeno così lasciavano intendere. Gli agriturismi "Cecchetto" e "Belvedere" di San Bernardo erano al completo e il B&B, a Tre Colli, davanti al ristorante "Il Conventino", idem. Gli altri locali situati sulla parte più pianeggiate della Valgraziosa erano meno richiesti ma comunque non vuoti. Secondo gli operatori locali le richieste di soggiorno privilegiavano ambienti dove la vista sul mare fosse facilmente raggiungibile: meglio se si poteva osservare dalla finestra, ma andava bene anche se occorreva fare qualche centinaio di metri a piedi per poter ammirare il panorama. 
Cristian aveva girovagato in quelle zone per quasi tutto il periodo primaverile per il solo scopo che le pareti esterne di quegli immobili si sarebbero prestati bene per qualcuno dei suoi graffiti. Ovviamente era stato anche tenuto sotto controllo dai rispettivi proprietari perché non si azzardasse a dipingere alcunché sulle pareti esterne dei loro centri di soggiorno.

Nel frattempo che Cristian pensava, osservava e deduceva che quella richiesta di vista sul mare era notevolmente insolita e fuori da un contesto turistico familiare. Tutti quei probabili operai: mangiavano, bevevano super alcolici, fumavano come ciminiere sigarette e sigari pregiati, parlavano volentieri con lui, dicevano di stare cercando lavoro ma, in effetti, facevano tutto il giorno avanti e indietro con le loro auto senza fare assolutamente niente che potesse anche lontanamente assomigliare al lavorare di operai.
Certamente i loro mezzi di trasporto non erano di lusso, ma erano tutte auto a benzina e quest'ultima costava quasi due euro al litro. Arrivavano, parlavano fra loro nella loro lingua al cellulare, andavano mezz'ora in camera e poi riscendevano e ripartivano con l'auto. Dopo un paio di ore ritornavano e avanti e indietro con questa storia, tutto il giorno, notte compresa, fra bevute di vino, grappa, vodka e brandy di qualità eccellenti. Si tenevano svegli bevendo litri di caffè. 
Una volta Cristian, dopo una delle sue spedizioni fra San Bernardo e Belvedere, mosso dalla curiosità di vederci più chiaro, aveva chiesto a uno di loro un passaggio fino al capolinea del pullman, a Tiricella di Tre Colli. Il turista, per dare ad esso una definizione, era un certo Igor, che fu entusiasta di dargli quello strappo. Durante il breve percorso, il personaggio, in perfetto italiano, tempestò Cristian di domande che avevano sempre come oggetto la base N.A.T.O. , U.S.A., di Camp Derby.
Il ragazzo drizzò le orecchie senza farsene dare a vedere e rispose di non sapere niente sulla base e aggiunse, ed era vero, che, lui, nell'interno di Camp Derby non c'era mai stato. Disse anche che non gli sarebbe dispiaciuto poterci entrare per dipingere su qualche parete di quei casottini, tutti lisci e di uguale dimensione. Quest'ultimi si notavano dalla strada provinciale esterna che, dalla pineta di Tombolo, porta a San Piero a Grado, prima di raggiungere la rotatoria che sulla sinistra convoglia gli automobilisti sulla via Pisorno, fino a Tirrenia.
Igor sorrise lievemente sotto i suoi baffoni stiposi e aggiunse sottovoce, nella sua lingua madre, qualcosa che Cristian non poté comprendere. L'auto intanto era arrivata alla fermata richiesta dal ragazzo. Il conducente fermò il mezzo e Cristian scese. Nello scendere dalla vettura, Cristian si girò di novanta gradi e, compiendo tale azione, sbirciò il contenuto della borsa aperta che era sul sedile posteriore. Essa conteneva un tablet Apple di ultima generazione.
Da Tiricella, a piedi, il ragazzo imboccò la strada comunale principale passando dalla Curvaccia. Si fermò alla fonte posta in località "L'Italia", bevve abbondantemente dalla polla fresca, si sedette sul muretto adiacente appoggiando le spalle al masso di pietra verrucana e meditò a lungo sul fatto che tutti gli stranieri, extracomunitari, presenti in zona, possedessero cellulari evoluti e tablets di ultima generazione e per niente economici.
Alcune volte, quando i presupposti operai si assentavano, era riuscito a sbirciare dalle finestre delle camere situate ai piani terra, l'interno delle stanze e aveva notato: server informatici e portatili professionali. Tutte cose che lui non poteva minimamente permettersi. Per portare avanti i suoi studi liceali, riusciva a malapena a connettersi a Internet, grazie ad una antiquata e lenta chiavetta USB mobile e con un vecchio PC fisso al quale aveva sostituito l'ormai obsoleto sistema operativo XP con un Ubuntu di ultima generazione, veloce e, per giunta, totalmente gratuito. La crisi economica, nella sua famiglia, si era fatta sentire profondamente e per acquistare i colori per le sue opere e poter coltivare la sua passione, era dovuto diventare esperto in collette di vario tipo. Aveva imparato perfino a fare torte che poi andava a vendere per le case del paese. Sempre stando seduto nello stesso posto, dove, vicino alla fontana in prossimità della quale, nell'impossibilità di poter essere controllata igienicamente, l'azienda responsabile dell'acquedotto aveva posto una targa con la scritta "acqua non potabile" e che, però, nessun abitante del posto, Cristian compreso, avrebbe mai preso, seriamente, in considerazione,  il giovane convenne che sotto la storia del "lavoro" ci fosse qualche trama occulta. Avrebbe anche voluto parlarne con qualcuno ma ritenne che le sue fantasie sarebbero potute diventare, per lui, ulteriore oggetto di scherno da parte dei suoi compaesani. Prese i suoi libri dallo zaino che si portava appresso e cominciò a prepararsi per il compito di matematica del giorno dopo: la materia in questione non era il suo forte e per riuscire a raggiungere il suo solito buon livello era necessario che lui stesse all'aria aperta e appoggiato a un masso di verrucano, dove l'ossigenazione delle meningi e il contatto delle sue spalle con la durissima pietra di Verruca, tipica del territorio calcesano, gli aprivano bene la mente per potersi districare brillantemente in seni, coseni, tangenti, logaritmi e integrali. Per le materie umanistiche e la storia dell'arte non doveva neppure studiarle: ce l'aveva dentro, bastava un accenno ed era come gli si aprisse un libro invisibile davanti agli occhi e lui ci leggesse sopra. Tale predisposizione gli illuminava l'esistenza e ogni volta, una nuova e pensata opera muraria si aggiungeva all'interminabile riserva di graffiti che la sua memoria accumulava brillantemente come una sorta di cassetto senza fondo che possa ospitare un numero incredibile di cartelle appositamente catalogate e pronte per essere utilizzate al momento opportuno. Ogni tanto si assentava dallo studio e i suoi pensieri si rivolgevano a Silvia, la sua bella compagna di classe, al modo opportuno che avrebbe voluto fosse necessario per poter farsi degnare, da lei, anche solo di uno sguardo e, perché no? Anche di un sorriso.

Per leggere il quarto capitolo fare clic sul tasto giallo a fianco: ..........

Autore: © Tiziano Consani
Tutti i diritti sono riservati

Questo racconto, in SETTE capitoli,  è offerto il lettura gratuita da:
  


Il racconto è frutto della mia fantasia. I personaggi che lo animano,  i loro nomi, i soprannomi e i fatti accaduti, sono tutti inventati, mentre i luoghi pubblici e quelli geografici sono reali. Come reali sono gli artisti, celebri, citati e le loro opere.  Tutti i diritti sono riservati. 

La produzione è sempre quella della "Stanza n. 5" ...




giovedì 3 settembre 2015

"Scorfano, il graffitaro" - Da "Le proiezioni nella stanza 5" di Tiziano Consani


- I Capitolo - 


LEI

15 dicembre 2014, ore 16:30 . Non poteva essere vero! Non in questo momento della sua vita! Appena dieci minuti prima, seduto accanto al grande focolare posto nell'angolo destro del salotto della vecchia casa colonica ristrutturata, dove abitava, Cristian aveva rimembrato quella notte di maggio del precedente anno che era riuscito a portare a termine il suo capolavoro e si complimentava con se stesso per il modo con cui era riuscito a completare la sua opera artistica e nello stesso tempo conquistare Silvia. Quel murales, iniziato e terminato in una sola notte, da lui disegnato sul muro in cemento che affiancava l'ingresso esterno del Liceo Scientifico F. Buonarroti di Pisa, il suo sogno di giovanissimo artista, era stato il modo per far sapere al mondo che il creatore di quell'arte, l'americano Keit Haring deceduto a causa dell'AIDS, a poco più di trent'anni, aveva oggi un antagonista, lui, Cristian Berti, soprannominato, all'unanimità: "Scorfano"! Quell'opera era un pezzo della sua anima più profonda. Aveva impiegato molto tempo in quel progetto, studiandolo nei minimi particolari, sequenziando il metodo organizzativo che gli aveva permesso di poterlo generare, nelle poche ore disponibili in quella serena e buia notte di luna nuova. Le stelle, nitide e brillanti, in quel cielo scuro che gli faceva da tetto, lo avevano aiutato a concentrarsi, a raccogliere tutta la creatività, come se la sua mente fosse collegata ad una sorta di frequenza medianica e avesse sprigionato idee compresse dentro di essa che, non potendo essere più contenute per mancanza di spazio disponibile, fossero esplose, spumeggianti, come il liquido che fuoriesce da una bottiglia di spumante appena se ne estrae il tappo. Silvia si era rivolta a lui con ammirazione. I suoi occhi grandi e nerissimi erano nascosti dal buio di quella notte, ma Cristian sapeva che lo sguardo di lei lo stava seguendo nei minimi dettagli e,  come fosse in trance, lui sceglieva i vari colori. La fascia che portava in testa gli permetteva di tenere ancorata a essa una piccola lampada a led che, con il suo forte fascio di luce, permetteva di illuminare il pezzo di muro sul quale lui lavorava. Era certo che i bellissimi occhi sensuali e profondi, della ragazza, fossero capaci di assorbire dentro di essi tutti i colori e le forme che stava disegnando. Li sentiva puntati su sé stesso come se lo avessero imprigionato e nello stesso tempo riuscissero a muovergli le  mani e le  braccia in modo tale che, attraverso gli strumenti e i colori, gli arti superiori si facevano artefici  e, nello stesso tempo, complici di quella sua opera muraria. Quel gesto carnale, da parte della ragazza nei suoi confronti, quel lungo bacio sulla bocca che, alla fine del lavoro, Silvia gli aveva concesso, fu per lui il sentirsi completamente avvolto nell'attenzione di quella bellissima creatura. Due anni prima, la ragazza era arrivata dalla capitale. Se l'era ritrovata in classe, nel  banco accanto e gli aveva sconvolto l'esistenza. Silvia, invece, si era subito irritata per quel posizionamento forzato e provvisorio, accanto a quell'individuo così poco fico e particolarmente addobbato. Lei sempre elegante e con i doverosi accessori rigorosamente firmati. Lui casual, o meglio, poco casual, anzi, particolarmente chiodato e adornato di piercing al naso e abbondanti campanelle metalliche inserite nei numerosi fori che aveva sui lobi e sui padiglioni delle orecchie. Pensò subito che quel posto vuoto accanto al ragazzo lo era perché chiunque si sarebbe tenuto a distanza da un individuo così. Poche ore dopo venne pure a conoscenza che Cristian, per l’intera classe, era solo lo “Scorfano”. Faticò un po’ per capire il motivo di tale definizione finché Carolina, la tipetta pepata della classe, con modo di fare mieloso, da vera ruffiana qual era, spiegò a Silvia la poca differenza che c'era, secondo lei, fra un muggine d’Arno e uno scorfano di mare, pescato in quel di Livorno: il primo, disse, che puzzava di fosso, il secondo che era buono solo per insaporire il cacciucco ed entrambi erano brutti da far paura. La spiegazione avvenne con gesti mimati e con un fare tale da far apparire la ragazza, alla platea che la stava ascoltando, come una via di mezzo fra una attrice teatrale e un vero scaricatore di porto. Prima che Silvia capisse bene il tutto, Carolina le illustrò, in dettaglio, di che cosa fosse costituito il precedentemente accennato e tipico piatto livornese, a base di pesce e frattaglie del medesimo, ben apprezzato anche nel pisano. Concluse, tanto per ribadire in termini più chiari quel che aveva prima enunciato con  metafora, dicendo che fra Cristian e i poco gradevoli pesci descritti, considerando che il compagno di classe era anche parecchio secchione, sempre secondo una logica personale ed ai più sconosciuta, proclamò che la differenza era pressoché pari a zero. Cioè senza far capire cosa ci combinasse l'esser secchioni, con il muggine e lo scorfano. Forse solo perché entrambi son pesci e, l'acqua, che può essere contenuta dentro ad un ipotetico secchio, avrebbe unito  in condivisione forzata i tre elementi, o per qualche altro futile motivo, inimmaginabile, su due piedi, a qualsiasi grado di intelligenza leggermente superiore rispetto a quella dell'interlocutrice in questione. Considerando l'antifona che il ragazzo proveniva dalla Valgraziosa, zona di vallini e ruscelli profumati ma, per chi è abituato allo  smog cittadino delle ore di punta, che non si può neppure immaginare minimamente il fresco odore naturale del verde che irrora l'etere, per l'olfatto e la vista di chi ha la fortuna di vivere a contatto con la flora del  Monte Pisano, non conoscendone alcuna differenza e facendo di tutta l'erba un fascio, i bei ruscelli avevano preso la nomina e  le sembianze di soli e dispregiativi fossi puzzolenti. Letti, appunto, adatti a muggini, secondo la versione personale e a un solo senso, quello dei bischeri, di Miss Carolina.

Cristian, soccombeva sempre, con rassegnazione, a quel che stava accadendo. Quel pomeriggio stava proprio pensando al bello di quella volta, quando durante la "sua" notte,  come se l'universo si fosse di colpo capovolto e le cose avessero cominciato a funzionare per assurdo, alla rovescia,  Silvia, dopo quel lungo bacio,  sfiorando con la bocca l'orecchio adornato di Cristian gli sussurrò: "Finalmente e solo per merito tuo:  la rivincita a quell'orribile amputazione  su quel pezzo di Phase 2. Lonny Wood sarebbe entusiasta di questa tua opera muraria. Mi chiedo come sia stato possibile distruggere un'opera del mitico Lonny con un'assurda, rudimentale, ignobile, arrugginita, scala di ferro grezzo! Cristian sei il mio eroe!"
Quella sola parola pronunciata da Sivia, "eroe", fu per lui musica sublime, sentimento di amore, grandezza universale, tutto ciò di cui  Cristian aveva esclusivamente bisogno, tanto da non ascoltare più assolutamente altro di ciò che di bello, lei, gli stava sussurrando ancora.
Quella sera era arrivato a casa raggiante perché quella bella ragazza mora,  alta almeno un palmo di mano più di lui, che la prima volta che lo vide si era irritata solo a guardarlo e si era fatta spostare di banco dopo meno di un'ora, colei che  sembrava irraggiungibile, che per quasi due anni, lui, aveva ossessivamente e furtivamente osservato a lungo dal proprio banco posto in fondo all'aula disadorna e poco piacevole del non vecchio di tempo ma di decadente struttura che era il liceo che frequentava, era diventata la sua ragazza.  Da quella sua postazione nell'aula, con lo sguardo perso nella traettoria che gli permetteva di osservare Silvia, ogni istante, aveva meditato a lungo sul come poter rendersi simpatico a lei. Finché non aveva scoperto quella ammirazione incredibile che legava Silvia a Lonny Wood, meglio conosciuto con lo pseudomino di Phase 2. E allora aveva capito di avere una possibilità per raggiungerla: lui si sentiva un artista e amava disegnare sui muri. 

Ora Silvia, oltre che ad averlo chiamato "suo eroe", desiderava pure che un vetro, come quello posizionato sul muro esterno della parete laterale della chiesa di S. Antonio Abate a Pisa, l'ultima opera pubblica dipinta da Haring, potesse essere posizionato, per sempre, davanti al capolavoro di Cristian in segno di riconoscimento di quell'arte. Pensava e ripensava a quando lei, gli disse di portarla a Venezia, nella città degli innamorati, di luglio e, precisamente, meditava su quel 10 luglio dell'anno prima e..., in quel preciso momento, vivendo la realtà di ciò che di terribile stava accadendo,  cominciò ad intuire e a collegare, vagamente, qualcosa...







- II Capitolo -



LUI




Cristian Berti, pisano di nascita e residente a Tre Colli di Calci, soprannominato "Scorfano", fin dal primo giorno di scuola, presso il liceo al quale si era iscritto, era un ragazzo poco apprezzato, sia dai suoi compagni di classe, sia dagli abitanti del suo paese, proprio per l'estro murario e anche per il suo modo stravagante di vestire, fuori dai canoni comuni. Era stramaledettamente bravo a scuola, tanto da avere dieci a lettere, filosofia e a storia dell'arte: cosa, della quale, Cristian si vantava con tutti. Per i suoi paesani, uno come lui, di carattere introverso, era poco inseribile nel contesto locale, caratterizzato da una zona colma di ulivi e inserita in un luogo costruito su alcuni antichi feudi medioevali. Territorio, quello di Calci, oggi rappresentato da una pieve romanica e da una Certosa Monumentale ben conservata e sede di un importante museo di storia naturale. La modernità di Cristian e la sua arte sconvolgevano quell'equilibrio. 

Quel giorno che vide piangere Silvia, davanti alla scala in ferro, sotto i loggiati esterni dell'istituto, inizialmente pensò che forse non erano fatti suoi, ma poi le si avvicinò e, lei, con quei bellissimi occhi neri, colmi di lacrime e i suoi capelli neri, mossi, che movimentati da una leggera brezza, le si appiccicavano sui rivoli bagnati che scorrevano abbondanti sulle sue guance, gli confessò l'amore che nutriva per quell'arte.

Quella scala di ferro, lì, davanti a lei, come aveva già scritto qualcun altro, prima, proprio su quel muro, oscurava l'opera di Lonny.

Tutto questo passò per la mente di Cristian vorticosamente, in pochi secondi, mentre, non credeva ancora a ciò che, in quel preciso momento, realmente, stava accadendo a lui ed a migliaia di persone nel raggio di trenta e più chilometri dalla postazione in cui si trovava.

Il terzo capitolo è pubblicato.  Fare clic qui per leggerlo!

Il quarto capitolo è pubblicato.  Fare clic qui per leggerlo!

Il quinto capitolo è pubblicato.  Fare clic qui per leggerlo!

Il sesto capitolo è pubblicato.  Fare clic qui per leggerlo!

Autore: © Tiziano Consani 

Questo racconto, in SETTE capitoli, è offerto in lettura gratuita da: 


Il racconto è frutto della fantasia dell'autore. I personaggi che lo animano, i loro nomi, i soprannomi e i fatti accaduti, sono tutti inventati, mentre i luoghi pubblici e quelli geografici sono reali. Come reali sono gli artisti citati e le loro opere.

La produzione è sempre quella e  ultima, della "Stanza n. 5" ...

Tutti i diritti sono riservati. 






mercoledì 2 settembre 2015

Ponte di Mezzo, Pisa Centrale: andata e ritorno - Da "Le proiezioni nella stanza 5" di Tiziano Consani


Sono seduto sulla tribuna posta sulla parte di tramontana, quella sul lungarno Mediceo, e sto osservando il Gioco del Ponte che è iniziato. Il sole batte ancora forte e i combattenti stanno mantenendo la posizione del carrello ben ferma al centro, esattamente fissa. Sono troppo lontano per vedere le facce tirate e sotto sforzo di coloro che, dopo quasi un anno di ferrei allenamenti, stanno cercando di rendere onore, ciascuno, per le proprie fazioni di appartenenza: Mezzogiorno e Tramontana. La voce che esce dagli altoparlanti è quella di Ferruccio Bertolini, calcesano D.O.C., rende tutti partecipi dello sforzo sostenuto dagli uomini, aggiornando, in diretta, sugli attacchi che i capitani delle singole squadre, momento per momento, comandano ai loro uomini. Nonostante che l'atmosfera sia carica di tensione e di folclore pisano, accanto a me, alcuni turisti stranieri ed altri di nazionalità italiana, battibeccano con due dei nostri concittadini su cose, direi, assurde, per un pisano come me e del tipo: fa caldo, c'è troppa afa, non c'è il tendone, c'è troppa gente, il carrello sul ponte sta fermo troppo a lungo, mi son venuti due palloni da basket, i combattenti si son messi d'accordo fra loro e fanno finta di spingere per far durare il gioco più a lungo e, in ultimo, guarda quello lì, con il frac e il cappello a cilindro, in tinta nera unita, che cosa ce l'hanno messo a fare sulla tribuna, conciato a quel modo e che cosa c'entra, lui, con questo gioco. Per quest'ultimo elemento, effettivamente, anch'io, non capisco che cosa ci stia a fare quello strano tipo, fra l'altro proprio seduto accanto a me, alla mia sinistra. La curiosità verso quel personaggio mi fa perdere l'attenzione dal gioco. Ogni tanto, giro la testa verso di lui e lo osservo. Mi chiedo quanto sia proprio ridicolo e, come faccia, con questo caldo a stare dentro il suo completo scuro. Assomiglia ad un lord inglese d'altri tempi. Mentre lo guardo, lui si volta verso di me e, nel nostro idioma pisano mi dice: "Gao! Che ci hai da guardammi 'osì!", al che, meravigliato, rispondo: " Se chiacchieri 'n pisano, ora sì, che mi fai vienì voglia di statti a guardà!, O di 'n dove vieni, te, conciato a cotesto modo 'ostì!". Lui mi guarda e tace, poi tira fuori da una tasca del frac una pipa, tutta scorticata, ne sfroona il fornello con il dito indice, tutto ingiallito e con l'unghia lunga quasi due centimetri e, senza alcuna logica, mi scuote tutto il contenuto sul piede sinistro, sbattendo la pipaccia sul mio ginocchio, ripetutamente. Mi viene voglia di dargli un man rovescio ma mi controllo e mi limito a dargli del maleducato. Lui mi guarda con fare sorpreso. Lo guardo negli occhi piccoli, profondi e rossastri: non mi piacciono affatto. Abbasso, disgustato, lo sguardo e la direzione dei miei occhi va a cadere sulle mani dello strano individuo e vedo che la pelle dei polsi e del dorso di quest'ultime è incartapecorita, sembra quella di un vecchio di oltre cento anni. Le dita son gialle come quelle di un fumatore incallito e le unghie sono lunghe, sporche e disgustose. Mi sento in disagio mentre lui, da una tasca interna del suo completo impeccabile, in forte contrasto con il corpo sciatto che lo riempie, tira fuori un piccolo scrigno circolare dorato, ne solleva il coperchio usando l'unghia lunga del suo indice come leva e ne estrae un pizzicotto di tabacco dall'odore schifoso. Lo infila nel fornello della pipa ben ripulita che teneva sempre fra le mani, ce lo pigia bene dentro utilizzando sempre il medesimo indice, ben unghiato, come ho già detto, di almeno due centimetri rispetto a quelle, seppur abbastanza lunghe, delle altre dita. Poi, sotto il mio sguardo attonito, infila una di quelle manacce nella tasca della mia camicia e ci estrae un fiammifero di legno. Lo accende sfregandolo su uno dei suoi polsi rinvecchiniti e, come se l'avesse strusciato su un pezzo di carta vetra, quello si accende e, lui, se ne serve per appiccare il fuoco al tabacco nella pipa. Nel frattempo comincia a tirar su aria dal cannello del suo odioso strumento di vizio e a tirar fuori fumo denso che, senza tanti preamboli, mi getta in faccia sotto forma di anelli dall'odore nauseante: un misto fra il puzzo della stipa bruciata e quello del letame inzuppato di piscio di un ovile. Mi alzo deciso a dargli una labbrata ma, in quel preciso istante, Ferruccio annuncia che il carrello sul ponte si sta muovendo, anzi, i combattenti della parte di Mezzogiono hanno ceduto e Tramontana ha vinto questo combattimento. Le grida di gioia degli appartenenti alla fazione vincente, me compreso, saturano l'ambiente e il resoconto in dettaglio dello spikeraggio di Ferruccio, insieme agli abbracci dei vincitori con i perdenti e viceversa, mi fa dimenticare, per alcuni minuti, l'uomo nero. Finita l'euforia del primo combattimento il gioco riprende con i combattenti del successivo turno. Nel sedermi al mio posto, mi ricordo il dove ero rimasto e mi volto, verso la mia sinistra, guadando dove prima stava l'individuo. L'uomo non c'è più ma, al suo posto, c'è il suo frac ed il suo cappello a cilindro e, sotto di esso, c'è una specie di foglio vecchio ingiallito, ripiegato, sporco, unto e fuligginoso, sembra un'antica pergamena. Sopra, in inchiostro color rosso sangue, c'è scritto un messaggio, in pisano e in una bella grafia da miniatore certosino: "O bimbo! Qui c'è un cardo cane che mi fa svaporà! Io vaggo a fummà la pipa ar mi' ber fresco! T'aspetto anco te! Vieni alla stazione, ar binario uno e piglia 'r sottopassaggio a manca! 'Un fa' tardi perché sennò 'r treno parte e, te, lo perdi! A doppo!" 
Rimango esterrefatto. Cerco di assistere ai combattimenti che stanno avvenendo sul ponte ma con il cervello fuori dalla mia abituale razionalità. Mi alzo e come un automa, a piedi, sotto il sole, arrivo fino al Ponte della Fortezza, contorno le mura del Giardino Scotto, raggiungo Piazza Guerrazzi, proseguo in via Cattaneo e, in breve tempo, raggiungo la stazione centrale. Vi entro e mi pongo davanti al binario "uno" e attendo, non so bene chi o che cosa...
Un capo stazione si accorge del mio stato poco vigile, si avvicina e mi chiede se sto bene e se ho bisogno di aiuto. Gli rispondo assente che devo salire sul treno al binario davanti a me. Lui insiste e mi chiede dove devo andare. Rispondo di nuovo di non conoscere il luogo di destinazione. Il capo stazione incalza con un: "Mi faccia vedere il biglietto!", ma io gli faccio intendere, senza pronunciare parole, a gesti delle mani, di non averlo. Allora, lui, mi dice che senza biglietto non posso viaggiare. Poi mi indica la biglietteria e mi consiglia pure di tornare a casa. "Se vuole le chiamo il 118.", aggiunge. Gli rispondo che sto bene, che non ho bisogno di niente e lo ringrazio, mentre i miei ingranaggi cerebrali pensano ad altre cose ed in particolar modo al quello strano messaggio scritto. 
Alla stazione di Pisa centrale ci sono, davanti al binario uno anche, ma non mi torna l'ultima traccia indicativa, cioè il fatto di prendere il sottopassaggio e girare a "manca", cioè a sinistra.
Sto corrodendomi le meningi sul fatto che per recarmi al binario uno occorra utilizzare il sottopassaggio, quando, invece, il binario è già lì, davanti a me e che, anche utilizzandolo, il sottopassaggio stesso, scendendo le scale, verso la direzione di sinistra, c'è il muro che delimita l'ingresso della stazione, mentre la discesa in questione permette l'ingresso ai binari dal numero due in poi, cioè quelli che si trovano sulla parte destra. La logica, nell'immediato, non mi permette di scendere gli scalini, ma qualcosa di non so che sta muovendo le mie gambe ed i miei piedi. Così mi ritrovo alla fine del sottopassaggio e, come ben so, sulla destra ho la galleria che porta ai binari e alla mia sinistra un bel solido muro.
Mi desto per un attimo appoggiandomi con le spalle al quel muro, guardando in direzione del cunicolo che ho davanti e che porta ai treni. Non faccio in tempo ad accostarmi che mi sento cadere all'indietro come se il muro dietro di me avesse la consistenza di un foglio di carta igienica. Mi spavento e con un colpo di reni riesco a ritornare al mio posto mentre sta passando una coppia di genitori con figlio al seguito. Il padre porta il bimbo, che avrà al massimo tre anni, a cavallo sulle spalle e, insieme a quella che penso sia la moglie e la mamma del bimbo, dopo aver sceso l'ultimo scalino del sottopasso, girano verso destra in direzione dei binari dandomi le loro spalle. Il bimbo però si volta, mi guarda e urla: "Babbooo, mammaaa! Guardate, guardate! Quell'òmo è sartato fòri dar murooo! O com'ha fatto? ". "O niniii, ma che dici, guà, ci manchi anco te a raccontà le bischerate! Vai, 'n tra pòo sèmo 'n sur treno e 'n quer mentre che s'arriva a Livorno, dalla tu' nonna, ti fai 'na bella dormita e smetti di pensà a chi sòrte fòri da muri!". "O com'è cotto dar sole 'r mi bèr topo, déh!" risponde la mamma a ruota. Io non faccio in tempo a salutare con una mano il bimbo che, con il collo girato verso di me, continua a guardarmi mentre una mano fredda prende il mio braccio trascinandomi dentro al muro, sotto lo sguardo pietrificato di quel bimbetto. Non credo proprio che dormirà sul treno nel tragitto di andata verso la città labronica.

Cado all'indietro sul pavimento, davanti a me ho il muro e dietro di me, dove dovrebbe essere la piazza di ingresso della stazione centrale della mia città di nascita, ho il binario uno...
Sul binario, unico, perché non ce ne sono altri, c'è un treno modernissimo, di colore rosso e verde, di quelli ad alta velocità, e, davanti a me, incitandomi a salire velocemente perché il treno è in partenza, c'è lui, l'uomo nero in frac e cappello a cilindro. Gli dico che non ho il biglietto e lui, porgendomi la sua mano unghiata, gialla e sporca, mi fa cenno che sto per perdere l'occasione, aggiungendo che il biglietto non serve e che offre lui, con vero piacere. Ho caldo, tanto caldo, sudo liquido maleodorante e puzzo come una capra e lui mi offre fresco e refrigerio eterno...

..Mi desto, indietreggio, mi volto verso il lato opposto al binario, verso il muro e inizio a correre dopo aver, per tre volte, fatto il gesto del vaffanculo con il braccio e la mano, anzi glielo dico anche: "Per te, per er tu' treno e per la tu' pipaccia che puzza di stipa strinata!". Corro verso il muro, lo attraverso, salgo le scale subito a destra e, in un baleno, sono fuori dalla stazione, quella vera, quella reale. Svelto raggiungo il Ponte di Mezzo e, arrivo, appena in tempo per ascoltare la voce di Ferruccio che annuncia la vittoria di Tramontana, anche per quest'anno 2015!


TC






Da:  LA STANZA N. 5 - Cose strane -

Ho fissato quella parete per giorni e per notti. Interminabili notti e altrettante interminabili sequenze buie di immagini. Quelle dei miei incubi, dei pensieri negativi, sicuramente dovuti ai postumi dell'anestesia, a quelli della morfina e di tutta la miscela di farmaci somministrati via endovena, con interminabili flebo.

I brevi momenti di preghiera, consentiti dal mio Credo, hanno alleviato il grigiore di quello strano scorrere di miserie. Come il vento di libeccio, con la sua azione poderosa, riesce a portare via tanta nuvolosità in poche ore.

Lo schermo-parete, così è diventato, a momenti alterni, cinema tridimensionale in quadricromia e giornale in solo bianco e nero: talvolta più nero del suo stesso stato, per far intendere meglio la precarietà della nostra breve esistenza, con le proprie immagini piatte, senza dimensioni e prospettive, rimaste impresse nei fotogrammi di una pellicola usurata e contenente figure di mostri dalle ampie fauci, pronte a ingoiarmi insieme alle mie paure.

Come fuori senno ho riso, pianto e meditato in contemporanea, raccogliendo informazioni e dati per poi poter riportare il tutto su questo foglio bianco. Ho immagazzinato il buono nel poco spazio disponibile delle mie meningi e ho cestinato il cattivo nella mia cartella di trash biologica. Ne è uscito fuori qualcosa che, nei prossimi giorni, posterò un po' alla volta su questa mia pagina.

Insomma, sceneggiature che, a raccontarle, raffigurano epiloghi di un "drogato", certo non per propria scelta. Episodi che possono capitare a chiunque, visualizzabili in semplici sogni o atroci incubi. Cose strane che mi hanno fatto riflettere. Pertanto le ho volute raccontare.


TC 




martedì 1 settembre 2015

Tartarughine - Da "Le proiezioni nella stanza 5" di Tiziano Consani




Vedo, in lontananza, avanzare verso di me una figura che all'apparenza potrebbe essere una donna vestita con un abito di tessuto di vari colori. In risalto, il cappello variopinto e una lunga gonna dal colore fortemente lucido, fra l'amaranto e il marrone scuro. Veste una camicetta verde pistacchio che ricopre un busto senza la minima rilevanza di seno. L'indumento è abbellito da disegni di gocce di rugiada, gialli, rossi, blu e marroni. Mano a mano che la vedo avvicinarsi, mi rendo sempre più conto che non è una donna vera e propria, o meglio, sicuramente è un essere femmina ma non certo umano. La sua faccia è, in effetti, costituita da due facce unite fra di loro, ciascuna completa di due occhi e due nasi. La bocca, invece, è una sola, centrale, acqua e sapone, molto bella, direi certamente sensuale. La parte destra del viso della figura ha i lineamenti di una donna di colore, del nord Africa, con gli occhi marroni grandi e la pelle color cioccolato, con il naso piccolo e rotondo, quasi nascosto fra le guance e le cavità oculari. L'altra parte del viso, quella di sinistra, ha sempre lineamenti femminili ma con pelle chiarissima, occhi verdi come lo smeraldo e molte lentiggini sul naso pronunciato ma perfetto, con caratteristiche da donna del nord Europa. I capelli non sono una vera e propria capigliatura ma sono un insieme di piume dalle decine di colori, dove la predominanza della cromìa è data dal rosso, dal giallo e dall'azzurro, accesi: somigliano alle piume di un grosso pappagallo dei tropici. Più che la figura si avvicina, più mi rendo conto che di umano non ha niente. Le braccia sono estremamente lunghe e sproporzionate rispetto al corpo, anzi, partono dalle spalle e arrivano per terra. Al posto delle mani ha due tartarughine che da piccole, che sono, ingrossano a vista d'occhio fino a diventare di dimensioni di circa quindici centimetri di diametro, con la testa totalmente fuori dal proprio guscio e la bocca aperta e affamata. Quella che sembrava una lunga gonna in tessuto è in realtà un unico blocco di legno di mogano laccato e la figura non ha piedi ma si muove verso di me come se fosse sollevata su un cuscino d'aria. Ad un tratto si ferma a circa un paio di metri dal mio letto, tende nella mia direzione entrambe le braccia magrissime e, queste, come fossero costituite da un insieme di tubi telescopici, si pongono a pochi centimetri, sopra il mio letto. A tal punto le due testuggini, con le loro bocche voraci, iniziano a mangiarsi, come se fossero di lattuga fresca, i pantaloncini corti che indosso: quelli di carta che mi sono stati forniti dal reparto ospedaliero e che ho definito, appena il personale infermieristico me li ha infilati addosso, come i "carzoncini di Pinocchio".
Appena le due testuggini hanno terminato il loro banchetto, le loro dimensioni si riducono nuovamente a quelle originarie iniziali, piccole, di circa tre o quattro centimetri cadauna. A tal punto la faccia bifronte, dell'essere, si apre nella sua parte centrale, quella che delimita i due volti e che li separa in modo tale da sembrare il combaciare, insieme ed allineato, di due ante . Infatti, come se fossero sportelli di un mobile d'arredamento, o le due ante di una finestra, essi si aprono verso l'esterno. I due visi uniti, ruotando di centottanta gradi, uno verso sinistra e l'altro verso destra, diventano elementi grotteschi, vuoti e grigi nel loro interno, che vanno a guardare ciò che è dietro la figura e cioè la parete della stanza. È così che l'apertura, a libro, delle due facce fa scoprire, dietro di esse, un volto mostruoso, con un solo piccolo occhio bavoso e una enorme fauce spalancata colma di denti acuminati, sia sulla circonferenza esterna, sia nella cavità interna. Il mostro ha una gola profonda dalla quale fuoriescono fumo nero e lingue di fuoco. Una specie di diavolo-squalo mi sta fagocitando senza che io possa fare assolutamente niente per evitare l'evento.
Chiudo gli occhi aspettando di essere il pasto primario della belva e vedo quest'ultima inghiottirmi in un solo boccone, con lettino e cannelli di drenaggio inclusi...


...Due labbra umide e profumate, di intensa essenza femminile mi baciano, prima sulla fronte e dopo sulla bocca. Apro gli occhi, lì per lì non vedo nulla e nessuno, finché, sullo sfondo laterale sinistro della stanza, ferma, con metà corpo dentro la parete e l'altra metà fuori di quest'ultima, scorgo la mia donna che mi guarda intensamente con i suoi bellissimi e grandi occhi neri. Poi apre il palmo della mano, lo pone sotto il suo mento e mi ci alita sopra un soffice bacio, prima di sfumare, subito nell'attimo successivo, dentro il sottofondo grigio di quello strano schermo.

TC


Da:  LA STANZA N. 5 - Cose strane -

Ho fissato quella parete per giorni e per notti. Interminabili notti e altrettante interminabili sequenze buie di immagini. Quelle dei miei incubi, dei pensieri negativi, sicuramente dovuti ai postumi dell'anestesia, a quelli della morfina e di tutta la miscela di farmaci somministrati via endovena, con interminabili flebo.

I brevi momenti di preghiera, consentiti dal mio Credo, hanno alleviato il grigiore di quello strano scorrere di miserie. Come il vento di libeccio, con la sua azione poderosa, riesce a portare via tanta nuvolosità in poche ore.

Lo schermo-parete, così è diventato, a momenti alterni, cinema tridimensionale in quadricromia e giornale in solo bianco e nero: talvolta più nero del suo stesso stato, per far intendere meglio la precarietà della nostra breve esistenza, con le proprie immagini piatte, senza dimensioni e prospettive, rimaste impresse nei fotogrammi di una pellicola usurata e contenente figure di mostri dalle ampie fauci, pronte a ingoiarmi insieme alle mie paure.

Come fuori senno ho riso, pianto e meditato in contemporanea, raccogliendo informazioni e dati per poi poter riportare il tutto su questo foglio bianco. Ho immagazzinato il buono nel poco spazio disponibile delle mie meningi e ho cestinato il cattivo nella mia cartella di trash biologica. Ne è uscito fuori qualcosa che, nei prossimi giorni, posterò un po' alla volta su questa mia pagina.

Insomma, sceneggiature che, a raccontarle, raffigurano epiloghi di un "drogato", certo non per propria scelta. Episodi che possono capitare a chiunque, visualizzabili in semplici sogni o atroci incubi. Cose strane che mi hanno fatto riflettere. Pertanto le ho volute raccontare.


TC 

L'angelo bello e la Cosa - Da "Le proiezioni nella stanza 5" di Tiziano Consani





Prologo 

L'infermiera mi lascia seduto sulla tazza del WC, mi chiede se deve restare, le rispondo che non mi pare il caso. Mi alzo, poi mi volto e guardo, con soddisfazione, lo sprofondare del mio elaborato fecale nel vortice d'acqua del mulinello prodotto dallo sciacquone: segno di una sicura ripresa del flusso biologico personale.

Nel medesimo istante che dedico a cotanta e quanto meno riflessiva osservazione, un capogiro: chiamo per due volte l'infermiera fuori dalla porta e... buio totale! 


L'angelo bello e la Cosa


La sequenza di fotogrammi che si pone davanti alla mia visuale è irreale. C'è una figura eterea, quasi trasparente, femminile, con un viso bellissimo, di una bellezza indefinibile, dai capelli mossi e biondi, lasciati cadere sulle spalle e sui due meravigliosi seni nudi, con due occhi azzurri e tanto profondi quanto possa esserlo un oceano. Ha occhi bellissimi e magnetici che mi attirano a sé e mi fanno fremere di  desiderio, più carnale che spirituale. 

Mi muovo, in direzione del mio angelo bello, come un piccolo frammento ferroso viene attratto da un magnete poderoso. Non voglio far niente per impedire quell'evento e riesco solo a fremere di incontenibile e morboso desiderio. 

Sto per raggiungere la figura e da questa esserne risucchiato, dentro la sua aurea di bellezza, nei suoi occhi, in un mare limpido e trasparente, pieno di luce bianca, rarefatta, quasi invisibile, con una serenità totale. 

Sono lì, quasi sulla linea di arrivo quando, proprio in quell'istante, arriva rumorosamente uno strano essere , grosso, brutto e grezzo, dal corpo costituito di pietra verrucana*, che mi ricorda la "Cosa", uno de "I Fantastici 4", celebre quartetto fantasy dei fumetti di alcune decine di anni fa. Tanto che, così, con tale medesimo nome, immediatamente, lo inizializzo in anagrafe. 

La Cosa, con le sue manone giganti, quanto incredibili, agguanta l'angelo bello per il collo e, prima, strizzandoglielo, gli fa schizzare i meravigliosi occhi azzurri verso l'esterno e, poi, dopo, ne fa esplodere l'attraente e irresistibile figura in infinite lingue di fuoco che vengono ingoiate dalle profondità bollenti di un pozzo invaso da urla agghiaccianti. 

La Cosa mi guarda, mi strizza una delle sue due cavità oculari mostruose e scavate nella durissima pietra di Calci e, con voce roca e profonda, mi dice: "Vai Pòrdo, anco 'uesta è fatta! Certo che 'un ti si pòle lascià solo 'n menuto e guarda, 'n po' po', te, che troiài 'ombini!" Poi si gira e torna indietro nella direzione dalla quale era arrivato, rumoreggiando come un Caterpillar della ditta "Grandi"di Coltano. 


Epilogo 

Sono steso sul lettino, un' infermiera mi sta tenendo le gambe alzate, un'altra mi schiaffeggia e mi tiene la testa all'indietro, due medici e il primario mi guardano con aria apprensiva. Vomito sul pavimento della stanza 5, l'intero bicchiere d'orzo della mia colazione, insieme alle due fette biscottate che ci avevo inzuppato dentro.

Elettrocardiogramma, ecografia, rilievo della pressione circolatoria e tre emocromo consecutivi eseguiti a fasi progressive nei giorni a seguire, non evidenziano anomalie dell'intervento e/o patologie fisiche. I medici mi rassicurano e dicono che, talvolta, capita che un paziente recentemente operato, perda conoscenza. Mi raccomandano di stare tranquillo anche se la degenza si prolungherà di qualche giorno per osservazione. 

* Pietra verrucana: durissima roccia, impiegata un  tempo per la costruzione di macine da mulino e originaria della Verruca: una località di Calci (PI).

TC

Da:  LA STANZA N. 5 - Cose strane -

Ho fissato quella parete per giorni e per notti. Interminabili notti e altrettante interminabili sequenze buie di immagini. Quelle dei miei incubi, dei pensieri negativi, sicuramente dovuti ai postumi dell'anestesia, a quelli della morfina e di tutta la miscela di farmaci somministrati via endovena, con interminabili flebo.

I brevi momenti di preghiera, consentiti dal mio Credo, hanno alleviato il grigiore di quello strano scorrere di miserie. Come il vento di libeccio, con la sua azione poderosa, riesce a portare via tanta nuvolosità in poche ore.

Lo schermo-parete, così è diventato, a momenti alterni, cinema tridimensionale in quadricromia e giornale in solo bianco e nero: talvolta più nero del suo stesso stato, per far intendere meglio la precarietà della nostra breve esistenza, con le proprie immagini piatte, senza dimensioni e prospettive, rimaste impresse nei fotogrammi di una pellicola usurata e contenente figure di mostri dalle ampie fauci, pronte a ingoiarmi insieme alle mie paure.

Come fuori senno ho riso, pianto e meditato in contemporanea, raccogliendo informazioni e dati per poi poter riportare il tutto su questo foglio bianco. Ho immagazzinato il buono nel poco spazio disponibile delle mie meningi e ho cestinato il cattivo nella mia cartella di trash biologica. Ne è uscito fuori qualcosa che, nei prossimi giorni, posterò un po' alla volta su questa mia pagina.

Insomma, sceneggiature che, a raccontarle, raffigurano epiloghi di un "drogato", certo non per propria scelta. Episodi che possono capitare a chiunque, visualizzabili in semplici sogni o atroci incubi. Cose strane che mi hanno fatto riflettere. Pertanto le ho volute raccontare.


TC