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domenica 3 settembre 2017

Le bollette, dell'energia elettrica e del gas, vi fanno pensare?



    Le bollette della luce e del gas sono, per voi, soli pensieri?

    Questo mio sito web, sul quale mi diletto, ogni tanto, a scrivere qualcosa, si chiama “Soli Pensieri”... Chissà, perché?

    Se siete fra quelle persone che hanno difficoltà a interpretare le bollette di fornitura dell'energia elettrica e del gas, leggendo ciò che ho scritto, qui di seguito, potreste sentirvi meno soli di quanto pensiate. Voglio raccontarvi una mia esperienza recente. 

    Era un caldissimo pomeriggio di agosto e, di ritorno da una estenuante mattinata lavorativa dove la temperatura esterna era stata di quasi quaranta gradi centigradi all'ombra, ciò che gradivo di più, dopo aver fatto una bella doccia rinfrescante, era il poter avere un meritato riposo, seduto sul divano di salotto, leggendo un bel libro. Non faccio in tempo a sedermi e ad aprire la confezione di quella che sarebbe stata la mia nuova lettura che... Dlin dlon, dlin dlon: suonano alla porta di ingresso... (Sono le ore 15,00...). Mi chiedo chi sarà a quest'ora e con questo caldo. Mi alzo controvoglia, vado a aprire. È la postina, tutta sudata e trafelata, che mi consegna, a mano, la posta:  perché la mia cassetta delle lettere è stracolma di inserti pubblicitari, premuti dentro a forza, contenenti le promozioni degli ipermercati locali: quindici minuti prima, quando sono arrivato dal lavoro, avevo svuotato la cassetta della posta ma, ora, era nuovamente piena. Cerco di soprassedere all'evento, svuoto nuovamente la scatola di latta dalle reclamizzanti missive e le deposito direttamente, senza neppure aprirle, nel contenitore differenziato dei rifiuti cartacei. Torno in casa, apro la posta che mi ha gentilmente consegnato il portalettere, leggo il contenuto e mi lascio andare, con sconforto e smorfia di dispiacere, sul divano, dopo aver visto l'importo da pagare delle bollette di luce e gas. Incassando il colpo e rimandando, a dopo aver letto almeno un capitolo del mio libro, la difficile interpretazione della traduzione numerica, in euro suonanti, dei rilievi relativi ai miei contatori della luce e del gas. Faccio appena in tempo a girare la prima pagina dell'oggetto cartaceo necessario al mio rilassamento psico-fisico che... Drin drin, drin drin... Alzo la cornetta del mio antiquato e funzionale telefono a filo (ci sono affezionato e funziona anche quando va via la corrente elettrica!!!) e rispondo a un'operatrice di call-center che vuole cercare di farmi cambiare la società di servizi che mi sta fornendo l'energia con quella che lei rappresenta in quel momento. La donna, con accento forestiero (non italiano), mi prospetta sconti da mille e una notte. Mi congedo dicendole chiaramente che non riesco a capire di che cosa stia parlando: in meno di due minuti mi ha vomitato, via filo, stringhe di numeri poco comprensibili anche per me che sono un tecnico con conoscenze elettriche e elettroniche. 
    Mi siedo nuovamente e apro la mia prima pagina e... Dlin dlon, dlin dlon, di nuovo alla porta: ore 15,15 con fuori 41 gradi centigradi!
    Davanti a me, più morto che vivo, che dico? Più cotto che crudo! C'è un rappresentante di una compagnia di luce e gas che mi ripete, per filo e per segno, l'identico sproloquio precedentemente ascoltato per via telefonica. Il venditore, con la loquacità del miglior rappresentante della più rinomata azienda di vendita di aspirapolvere porta a porta (senza nominarla, tanto, ormai, la conosciamo bene tutti!), tenta tutte le migliori tecniche di vendita che le scuole di marketing diretto hanno messo a punto negli ultimi vent'anni. Ma non risponde alla mia domanda, cioè non chiarisce la mia necessità di sapere quanto, realmente, costano un chilowatt di energia elettrica e un metro cubo di gas, all'azienda che lui stesso rappresenta. Non capisce perché glielo chiedo e non gli importa di sapere perché mi faccio questa domanda. (Mi risponde che a lui... n'importa 'na bella sega e che io, le seghe, me le faccio ne la chiòrba...). Mi lascia lì, sulla porta, come 'n bischero, come diciamo noi toscani, e se ne va, con il dito indice già posizionato, a suonare il campanello del mio vicino, scuotendo la testa per l'abbocco padellato (che in pisano significa: tentativo andato a vuoto, non riuscito).
    Torno in casa, non faccio in tempo a sedermi e di nuovo è il telefono fisso a suonare. Subito poco dopo anche il mio cellulare... Sempre e solo operatori e venditori di medesimi piani tariffari energetici. Spengo subito ogni ammendìolo (apparecchiatura tecnologica) che mi gravita intorno e stacco pure il campanello della porta. Finalmente riesco a godermi l'ambito riposo con annessa e rilassante lettura!

    La sera ho pure tempo per meditare sull'accaduto e sull'accattivarsi del marketing diretto-telematico legato al gas e alla luce. Conosco la parte tecnica ma mi sfugge il perché ci siano così tanti venditori a vendere contratti luce e gas quando sono anni che cerco un venditore, per le mie fotocopiatrici usate e, di quest'ultimo, non riesco a intravederne neppure una vaga e sfumata ombra...


Nei giorni a seguire faccio una serie di telefonate e una serie di ricerche sul web. Tutto si chiarisce nel giro di pochi giorni. In sostanza, ogni venditore che stipula un nuovo contratto, di luce , di gas o entrambi, riceve un diritto medio di circa 30,00 euro a contratto girato, più i diritti in provvigione, (infinitesimi, ma esistenti), finché l'utente agganciato rimane cliente dell'azienda di vendita della fornitura.

Se si fanno due conti, anche se in un'intera giornata lavorativa vengono agganciati due soli, a dir loro, fortunatissimi, i rappresentanti in questione incassano ben 60,00 euro. Se poi sono bravi e convincenti, la scalata al centone giornaliero, come si dice noi toscanacci, doventa 'na giacchettata, cioè un gioco da ragazzi.


A questo punto il mio cervello si mette in moto. Qualche giro di telefonate, qualche coincidenza fortuita e la soluzione ce l'ho davanti ben delineata.

Illustrerò di seguito solo la parte legata all'energia elettrica che è la più difficile (chissà perché?!). Per il gas vale quasi la stessa cosa ma è più facile estrapolare, dalla bolletta, il reale costo al metro cubo. Contro, invece, riuscire a discernere il prezzo reale di un chilowatt di energia elettrica. 

Iniziamo a comprendere...


C'è da sapere, che il prezzo della materia prima, cioè il prezzo di fornitura della corrente elettrica: è irrisorio!  E che la differenza, fra il prezzo fatto da una ditta che propone contratti, rispetto a un'altra, è riferita solo a tale, e irrilevante, dato di fatto. Diciamo che cambiando azienda l'utente risparmia qualcosa ma, non molto: economizzerà un po' di più durante il primo anno di contratto, un po' meno nel periodo successivo ma, qualsiasi scelta che verrà fatta, non sarà un grande risparmio.

A fare il vero prezzo della corrente che consumiamo è la somma delle seguenti voci:
  • le accise statali e l'imposta sul valore aggiunto (I.V.A.) che spettano all'Ufficio delle Entrate;
  • il costo di trasporto dell'energia che spetta al distributore;
  • i canoni obbligatori mensili che l'azienda venditrice utilizza per ricoprire i costi dei rappresentanti alle vendite e del marketing;
  • Il costo una-tantum (circa 70/80 euro) di deposito iniziale;
  • il reale costo di fornitura che spetta al produttore.

    È quest'ultimo, il vero prezzo della corrente: circa un terzo, talvolta anche un quarto, di quello che realmente spendiamo per pagare la bolletta della luce! 

    In numeri: il prezzo reale di un chilowatt/h di energia elettrica è poco meno di 6 centesimi di euro! Esattamente: € 0,05883 nell'anno 2016: prezzo del PUN: Prezzo Unico Nazionale.

    Le aziende venditrici, giocando su questo piccolo valore numerico, abbassano e alzano tali pochi centesimi per proporre quello che definiscono il loro supervantaggio offerto!




Dico io! Ma anche se viene fatta la metà di 6 cent, quanto sarà mai il vantaggio di questi benedetti 3 cent, per noi poveri utenti? Su 100 Kw/h consumati in un mese, ci sono appena 3 euro di risparmio...

Perché, per 3 euro, quando ci va bene, dobbiamo cambiare fornitore di servizi? Chi ce lo fa fare?

Sarebbe invece ben diverso se fosse possibile recuperare una parte dell'introito iniziale che va al venditore, se si potesse recuperare una parte o addirittura eliminare il costo iniziale di deposito e, nei limiti possibili, sarebbe pure il massimo poter riscuotere un bonus premio sui nuovi contratti che potremmo segnalare, come utenti, ad amici, parenti, conoscenti, ecc...


Che cosa ne pensate? Sarebbe bello?

Sappiate che ciò che ho scritto sopra, si può trasformare in realtà!


Buon proseguimento!


Tiziano Consani





martedì 29 agosto 2017

Vi voglio arraccontà!

Òra vi vogli'arracontà 'n fatto! Così! 'N pisano di Carci, ch'è 'r carcesano!

Dovete sapé che, se c'è 'na 'òsa che mi fa rimescolà 'r piscio col l'urina (ce n'ènno anco de l'artre...), è quella di dové pagà le salassate che m'arrivano col le bollette de la LUCE e der GASSE, ònni du' mesate!

Da l'arba, 'n fino a che 'r sole 'un si tuffa 'n mare, è tutto un passà, tutto 'n sonà di terèfano e anco di 'ampanello de l'uscio, di gente che ti vòr fa' rispiarmà! Ma 'un c'è nimo che ti dice, come potecci levà le gambe!

Ci-hanno tutti la prezzatura più meglio! Ma quando, a fondo der mese, rivan que' fogliacci, ch' ènno peggio de le fatture der mardòcchio, ortre a 'un capicci guasi niente, lo sconto che ci dev'èsse', 'un c'è mai! Quando pe' 'na motivazione e quando pe' n'antra, quer che si va a spende' è sempre di più, parecchio assai, di quer che la nostra chiòrba si pòle 'mmaginà 'n po' poino!

Allòra mi son 'nterrogato se ci poteva èsse' 'n sistema, per poté guadagnà quarcheccosa su quer girà, di Oscare, ('r contatore: come si chiama noiartri carcesani). Sì! Pròpio 'osì! Fa' GUADAGNÀ la gente su quer che spende di lume e di gasse!

Gira che ti rigira, l'artro giorno, 'n po' po' 'n cima a la Taneta e, 'n po' po', 'n duve princìpia 'r vallino di Bisantola, mi son misso a strizzà 'r ceppì'one finacché 'un h
ó trovato 'r vèrso di mette' ner bùo quer che m'era viensuto, a galla, 'n chiòrba!

Doppo meno d'un paio di settimane, 'n po' con internètte e, 'n po', a son di discorre con quello e con quell'artro, hó misso, 'nsieme, 'n sistema ganzo. Hó c
ambiato, subito, le ditte che mi vendevano e' lavori e che mi risuccchiavano anco la mia, d'energia! E poi mi son misso 'n mòto. E, questa vòrta, con chi mi pareva a me, e nò, con chi avrebbe vorsuto 'ngaboiàmmi!

Se volete provà anco voiartri, a fa' quer che faccio io, scrivetemi! Appena posso, vi vièngo a trovà!

consanitiziano@gmail.com

Se 'un mi volete scrive' ma ci volete capì di più, fate cricche su questo rigo e' qui e leggete l'articolo:
"Le bollette, dell'energia elettrica e del gas, vi fanno pensare?"


TC
Scritta 'r ventinòve d'ogosto der dumiladiciassette: giorno der cinquantacinquesim'anno, ch'aprì ll'occhi a Pisa!



lunedì 29 maggio 2017

Il cane, il gatto, io e... basta!


Mi guardo intorno e medito sul fatto che la prospettiva umana è cambiata, insieme alle abitudini e alle consuetudini. Non facciamo più figli, non alleviamo più animali da cortile ma, in compenso, tiriamo su cani e gatti alimentandoli e curandoli come veri e propri pargoletti, fino alla loro vecchiaia e morte naturale. 

Nel frattempo mettiamo padri e madri in ospizio per avere più tempo per noi e anche per portare il cane dal veterinario o a passeggiare. Fra breve, al posto del medico di famiglia, avremo il veterinario di famiglia e, la famiglia, sempre più allargata e adattata, oltre a perdere l'intero senso, sarà prevalentemente canina e felina.
Direi, una bella evoluzione! E la scimmia, dalla quale qualcuno ha sostenuto che noi tutti proveniamo, è qui che sta pensando come fare a abbaiare e miagolare! Un bel problema! Vero? (Quello della scimmia, intendo...)

TC
29 maggio 2017


domenica 30 aprile 2017

Un giorno, forse, tornerò




Ho cercato, invano...


Un giorno, 
forse, tornerò. 
Solo quando
avrò visto
e avrò ascoltato:

la coerenza,
il rappresentare solidamente il lavoro e i lavoratori,
il difendere con fermezza i valori cattolici educativi e tradizionali della famiglia,
l'affrontare l'immigrazione con forza positiva.

Quel giorno, 
allora, 
sarò tornato, 
perché avrò visto 
una luce accogliente 
rischiarare il buio.

E..., quella comoda seduta

lasciata vuota,
a lungo, 
per poter giungere
fino al futuro,
quello vero,
con la gente soddisfatta!

TC
30 aprile 2017
(Perché, oggi, non ho partecipato alle primarie.)

venerdì 7 aprile 2017

L'ipocrisia del dì





Stragi di umani
in succedersi sovente
separano le mani
rompendo ogni frangente 


Scuri periodi dolenti
dentro una scatola nera
manca il sale nelle menti
la pace è una chimera!


Il far veder la forza
di bombe e di cannoni
gas che son la scorza
di tante distruzioni


Avidità di soldi
facili per far girare
ricchezza ai maningoldi
per idoli da adorare


Dormienti nel torpore
frustati per pagare
accecati dal bagliore
del tempo da cercare


Questo vivere di corsa 
per niente far mancare
per far girar la borsa
la guerra dobbiam fare


Non può essere così
guardiamoci negli occhi
l'ipocrisia del dì
costruisce solo balocchi!


TC
7 aprile 2017

venerdì 25 novembre 2016

Tarabaralla



TARABARALLA
Eran l'otto di mattina e Pòrdo era già 'n sur fìo dottato, di Cèncio, col le su' gambe lunghe, arricignolate a 'r rappo più grosso, quello che lo poteva tené bene, senza 'he si potesse troncà 'n ner mezzo. L'òmo si rimpiattava 'n tra le foglie e buttava giù, 'n gozzo, fìi, a tutta randa. Li 'ngolliva col la buccia e tutto, gambo 'ompreso. Prima 'he ci montasse sopra, 'r fìo, aveva più fìi che foglie. Doppo 'n òra, le foglie eran l'istesse di prima ma, de' fìi, 'un c'era più nemmen l'ombra. Pòrdo si strigó dar rappone e, piano piano, scese giù, a sguscio, per er tronco. Lo stòmbao n'era diventato gonfio 'ome 'r botticello di Botticino. Quello ch'era 'n coppaio dar Sordino e che 'ni s'era allentato le doghe e n'era sortito fòri 'n gonfio, ner mezzo. 'N po' po' d'affare, sbuzzato, che pareva fusse 'n boddone, grosso 'ome la pancia d'un vitello. Er pastore era 'ntronfito, da tanto s'era ripieno di fìi e 'un ni riuscì nemmeno a mettessi a sedé 'n su la ripa ch'aveva drèto di lu'. Passó di lì, per caso, Sartafossi e ni dimandó perché avesse quer buzzo, grosso 'osì. Pòrdo, 'un lo caó nemmen di struscio. Stava zitto, ritto 'n piede. Guardava 'n su' e pareva che scoppiasse di lì a pòo più in là. Poi, guasi 'n sur punto di rimané senza respirà, tiró 'n rutto che ni fece sortì da la bocca 'na ventata da fa' cascà tutte le foglie ar fìo e falle rifinì tutte addosso a Sartafossi e coprillo tutto, da un fallo più vedé. Poi, Pòrdo, abbassó la chiòrba per guardassi la pancia, che n'era sgonfiata tutta nuna bòtta e, co'n 'na sgrullata di spalle, si mosse verso Sartafossi, che pareva fusse affogato sotto 'r mucchio di foglie di fìo. Ne ne sgrulló quarche menata, di dosso, per farni sortì fòri 'r ceppìone e poi, a quello, ni disse 'n sur muso: "TARABARALLA, n'avró smartiti, 'na sessantina di dodicine, di fìi!". Si rigiró, lasció lì Sartafosssi 'ome 'n bischero, rioperto di foglie di fìo e col la bocca spalancata da la maraviglia. Ripiglió 'r viottulo da 'n duv'era viensuto e s'avvió verso 'asa. Prima di rivà, sartó 'n po' po' giù ner vallino a bé quarche gozzata d'acqua a la polla più bassa. Poi rimontó la ripa, vòrse passà 'n sopra ar grottone di verruano ch'era a Tiricella e ribevve a la polla più arta. Rifece 'r tragitto tre vòrte, 'n su, 'n giù, e, ònni vòrta, si fermó a bé 'n po' po' d'acqua di polla. Fece tre rutti di seguito, spinse settoòtto sortite d'aria dar di drèto e si ridisse da sé: "TARABARALLA, òra, è come s'avessi 'aminato ner pari e 'un avessi mangiato nemmeno 'n fìo. Posso anco 'ndà a desinà da Nellona, a la Porveriera, che m'ha 'nvitato a mangià e' maccheroni fatti 'n su l'unto di 'onigliolo e la su' frittata d'òva di papero. Tanto le' è lucchese, è tirchia, più d'una 'uindicina, d'òva, 'un ce ne mette. 'Un è mìa 'ome la mi' moglie Rachele, che quando mi fa l'òvo ar tegamino, col l'òva di lucio, piglia la padella che n'ha forgiato, 'n su misura, 'r Coscièra e me ne 'òce 'na trentina a la vòrta, nuna botta sola!"...
..."La sera, verso le sette, basta 'no spuntino cor cacio peorino e du' pere e, doppo, a le nòve, ni si dà di fritto col la pastella, fatta col la farina bòna der Ciòtta, 'r muganio e l'òva fresche der pollaio. Si frigge 'n bèr galletto ruspante, e 'n par di 'hili di patate e carciofi. La mattina doppo, a l'arba, si fa 'na bella giratina ar lògo e... doppo... TARABARALLA, è come 'un avé mangiato nulla! Si pòr riomincià dar principio! Questa vòrta dar melo di Baghèo. Er giorno doppo dar pero der Guardione, quell'antro, da l'arancio di Bòbbe e via 'òsì 'n sino a finì la settimana, cor sorbo di Guartiero: così mi ci disinfetto le budella per riomincià la settimana doppo. A la fin fine, TARABARALLA, quer che entra di sopra, risòrte sempre di sotto! Sicché: TARABARALLA o poggi e bù'e, è sempre l'istessa 'òsa. Tutto 'uer che si gira e tutto 'uer che si fa, sian bischerate o cose serie, è sempre sempre: TARABARALLA , e basta! Sicché, TARABARALLA, abbisogna fa' come quelli. Come quelli che PAREVAN PINCO!"
Se volete sapé chi ènno 'uellli che paian Pinco, criccate 'ui sotto e bòna lettura:
TC
Ventiuattro novembre der dumilasedici

giovedì 27 ottobre 2016

Sai 'na sega te! Sièi piccino! (Ricordi...)




Il bimbo stava seduto sulle gambe del nonno che si era accovacciato sulla radice del vecchio ulivo. L'anziano uomo si era seduto alla base di quello che chiamavano "il loro ciocco",  con le spalle appoggiate e quasi interamente contenute nella cavità del tronco. Il contatto con la terra era qualcosa di vitale per colui che aveva vissuto a lungo e aveva visto e ascoltato cose che non avrebbe mai potuto dimenticare. Spesso, ospitati dal loro ciocco, si lasciavano andare nei loro brevi e diversi discorsi per poi ritrovarsi insieme, in silenzio, a osservare il panorama della vallata che dal monte pisano raggiungeva la pianura fino a far scorgere, sulla linea dell'orizzonte, il mare. Il nonno, ogni tanto, lentamente, tirava su una boccata dal suo sigaro toscano, inspirava l'aroma del tabacco e, dopo alcuni secondi, restituiva all'ambiente circostante i residui di quella combustione facendone passare il fumo puzzolente sopra alla testa del nipote, schifato. Allora il bimbo protestava con un: "Nonno, ma che fai? M'affummichi tutto!", ma l'uomo, senza ascoltarlo, continuava la sua lenta fumata e iniziava uno dei suoi racconti sulla guerra. Quella che non aveva fatto, ma che aveva vissuto.
Era come un rituale, ogni volta era sempre la stessa cosa, tutto iniziava con la medesima sceneggiatura: la seduta sul ciocco, l'osservazione silenziosa della vallata, la fumata, la protesta del bimbo per il fumo e l'inizio della nuova storia. Come se fosse la replica infinita di un copione teatrale. Le storie, pur diverse fra di esse, avevano sempre lo stesso finale: lo straniero e gli stranieri, 'r forestiero e e' forestieri, come diceva il nonno.

- "Nonno, nonno, chi sono i forestieri?"
- "Sièi 'n rantacchietto e discorri meglio di me! Chi t'ha insegnato a discorre così, le sòre o la maestra? Io son ito a scòla 'n fino a la seonda 'rementare... Quando sièi 'on me mi devi di': "Nonno, chi ènno e' forestieri? Sennò 'un t'arracconto più nulla! Hai 'apito bimbo!"
- "Va bene, nonno. Chi ènno e' forestieri?"
- "Sai 'na sega te, sièi piccino! Sièi nato ieri, te! Sièi sempre 'n ner becco de la ciògnola! Stammi a sentì me, che son vecchio, e só le 'òse!"  (silenzio, a lungo)
- "Guarda bene laggiù 'n fondo, bimbo. Guarda bene bene."
- "Nonno guardo, ma non vedo niente!"
- "Guarda bene, lo vedi 'r mare?"
- "Si, nonno. Lo vedo."
- "Che c'è 'n sur mare?"
- "Non c'è niente, nonno!"
- "Òra, 'un c'è nulla! Diàmine! Ma quer giorno, quando tu ma' e tu pa' eran rantacchietti 'ome te, io, 'nvece, qui, e' c'ero! E laggiù, 'n sur mare, e' c'era tutta 'na 'opertura  di nave, e di lì, 'n sopra, tiravan co' 'annoni 'n sino a quassù. Certe po' po' di foàte da fa' arricignolà le budella, a vedelle! "
- "Perché sparavano con i cannoni?"
- "Perché e' forestieri d'Amerìa volevan mandà via quell'antri forestieri tedeschi ch'eran rimpiattati 'ui 'n sur monte!
- "Nonno, nonno, fermati 'n  po' poìno, ma chi ènno e' forestieri? 'Un me l'hai mìa anco ditto?"
- " 'Un te l'hó anco ditto perché 'un m'hai anco dato 'r tempo di dittelo'! 'Un ti iresce di chetatti 'n poino! Stai zitto! Sai 'na sega te, sièi piccino! (silenzio)... E' forestieri ènno tutti 'uelli che 'ntedescano!"
- "O nonno, ma che vòr di', che 'ntedescano?"
- " 'Un sai 'na sega te! Nemmen che vòr di' 'ntedescà! Ma sièi pròpio piccino, te!... Allòra! 'Ncominciamo dar princìpio! Sennò 'un intendi nulla, te!...
Prima 'he vienisse la guerra, viensero e' tedeschi. Sì, que' tedescacci! 'Un ragionavan mìa 'ome noiartri! Lòro, e' 'ntedescavano perché erano forestieri. E siccome 'ntedescavano, 'un si 'apiva nulla di 'uer che dicevano.
Poi, doppo, viensero 'uell'antri forestieri a liberacci da' tedeschi. Viensero da l'Amerìa e, anco lòro 'ntescavano 'ome e' tedeschi. 'Un ci si 'apiva 'n bào di sugo. E per levà di torno tre bischeri che 'ndescavan 'ome lòro, si misseno a bombardà d'unni 'òsa. E poi, quer giorno, su l'utimi d'ogosto, siccome 'un n'era bastato tirà co' 'annoni, ci seminonno addosso, pe' 'na giornata, 'na grandinata di bombe, col l' aroprani... Che lavorìò! 'Un ci si 'apiva più nulla... (silenzio). Hai 'apito bimbo?"
- "
No, nonno. Non ho capito nulla! Poi, gli americani non parlavano il tedesco, parlavano l'inglese degli Stati Uniti d'America. Me lo ha spiegato la maestra e mi ha anche detto anche che vennero a liberarci e fecero finire la guerra."
- "Mmmh! T'ha ditto 'osì, la maestra,... per davvero?"

(Silenzio, a lungo)
- "Sai 'na sega te! Sièi piccino!...La vedi 'uella biga di sugo di pèora ch'è lì sotto noiartri?"
- "Sì, nonno!"
- Ecco! Bravo! Allòra domani, quando rivai a scòla, dinni a la tu' maestra che sa 'na sega le' su' sughi! E dinni anco che te l'ho ditto io, di dinnelo! E perché, io, e' c'ero! Dinni anco che e' libbri possan scrive' quer che ni pare e ridinni 'n antra vòrta che, io, e' c'ero! (...) Via, òra bimbo è tardi, abbisogna ritornà a segà 'r paleo. Tanto 'ui, e' discorsi, li porta via 'r vento. Poi 'uando sarai grande cerca di ragionà sempre col la tu' chiòrba e 'un ti fidà mai di quer che dìano quelli che 'un c'eran prima e che 'un c'ènno mai òra. Dai rètta a 'n bischero! Dai rètta! Sai 'na sega te! Sièi piccino!
- "
No, nonno. Sono grande, io! Non sono piccino!"
- "Diamine, bimbo! Hai ragione! Fino a quest'artra vòrta 'un te lo dìo più! Vai! Vai a ruzzà col l'anatre e guarda d'un fatti beccà dar papero o dar lucio. Perché, sai 'na sega te! Sièi piccino! Poi, domani, ti porto 'n Verrùa a vedé la piana d'Arno. Così t'arraconto perché l'Arno riva 'n mare  a curve 'nvece che per diritto. Ch'è meglio che ragionà de la guerra e de l'amerìani. Che, lòro lì, ènno 'ome la civetta e peggio der cuccù: fanno 'r vèrso der "tuttomio, tuttomio" e sfanno 'r nostro nidio per rifallo 'on chi ni pare a lòro. Er cuccù, armeno, entra e cova ner nidio di 'uell'antri uccelli senza sfannelo...  Te lo dì'o perché, sennò, sai 'na sega te! Sièi piccino! Sièi sempre 'n ner becco de la ciògnola e credi a le novelle che t'arraccontano!"



TC
24 ottobre 2016

Le conclusioni le tragga il lettore.
 
 

domenica 23 ottobre 2016

Te staresti bene a ferrà e' 'oniglioli ne la piana di Sarrossore! (Collana: "Re" matto) - 2° racconto




È sì! 
È pròpio vero! Meglio matto che sòdo! E 'un ci pòle piove' sopra. Perché, questa 'òsa, 'un è 'na bischerata! E, per far fa' capì meglio a tutti voiartri 'r perché e 'r per come, vi voglio arraccontà 'n fatto.  Tutto 'ncominció quer giorno che Pòrdo 'ndiède a lavorà d'òpra 'n Sarrossore. Che volete vedé! Pareva tutto normale. L'òmo di Treccolli, viensuto dar monte, nato mezzadro e pastore, si ritrovó ner piano 'nsieme a le su' pèore e ar su 'ane lupo, Raspone. 'Un aveva anco fatto nemmeno 'n fischio, di 'uelli che sapeva fa lu', con du' diti 'n bocca, per radunà le pèore, che ni si paró davanti 'n fattorone e ni disse a ghigna dura che 'r padrone de la terra, 'r Re, l'avrebbe fatto arrestà subito per èsse'  entrato col le pèore a fanni mangià la su' erba. Pòrdo rimase subito a bocca splancata e sdentata, aperta, da la maraviglia. Di rimbòtta, guardó l'òmone che ni s'era parato davanti e ni disse: "O che c'incastra 'r Re! Io son viensuto 'ui per 'mparà a ferrà e' 'avalli! Le pèore ènno mia! 'Un le potevo mì'a lascià a Treccolli, sole!" Ar ché, 'r fattore, più 'nghiavulito di prima, n'urló sòdo 'osì: "Sicché, caro bifolco, mi vuoi venire a intendere che sei venuto dai tuoi monti per ferrare i cavalli del Re, come se fossero di una persona qualsiasi?! Ma lo sai che il mio Re, è anche il tuo?! Ma mi hai ascoltato bene? Riesci a capire, con la tua testa vuota che sei entrato con il tuo gregge dentro la tenuta privata, di San Rossore, dove il nostro Re viene spesso a soggiornare e a riposare?!"


Pòrdo, sempre di più maravigliato e sempre a bocca spalancata, a sentissi da' der biforco e sentissi di' ch'aveva la chiòrba di rapa, ammicc
ó ar fattore l'omino piccino ch'era a sedé sotto ar ciliegio a ghièci metri da 'n duv'eran lòro. Ma quello, 'r fattorone, cor su' modo di fa', sòdo, ner su' vedé le 'ose senz'occhi, l'omino, 'un lo vidde nemmen di struscio. E, da tanto era 'nfatuàto, continuó a sproloquià senza sentimento,  anco 'uando 'r nostro Pòrdo, rivòrto a quello, ni disse: "O Sor mi' Re, io come n'ho ditto prima, 'uando m'ha 'nterrogato per sapé chi fossi, n'ho risposto ch'ero Re anch'io e ch'ero 'n Re matto. Ma è meglio èsse' matti 'ome me, che sòdi 'ome questo Su' fattore e' qui!" A quer punto Re Vittorio, rivòrto ar fattore, che questa vòrta fu' lu' a spalancà la bocca,  ni disse, con fa' di 'omando, di 'ndà, a la svèrta, a ferrà tutti e' 'oniglioli de la piana di Sarrossore. Perché aveva trovato 'n fattore nòvo che si chiamava Pòrdo e che era, anco lu', Re. Un Re matto, vero!
Òra si ritorna 'n po' po 'ndrèto e si riparte dar momento che Pòrdo riva col le su' pèore davanti ar Re Vittorio che, siccome era a fa' le ferie 'ui ner pisano, s'era addormentato a sedé 'n terra appoggiato col le spalle ar ciliegio. Pòrdo, che era di monte ma 'un era scemo, s'accorse subito, da la pò'a artezza fisì'a, che quello lì che dormiva era 'r Re d'Italia. La miseria aveva fatto scende 'r pastore da la Val di Carci per indà a cercà òpra'n piano e, piano piano, ( guardate voiatrri che po' po' di giòo di parole ch'è questo e' qui) a son di seguì 'r fiuto der su' Raspone, avvezzato apposta per annusà la meglio erba da pèore che ci poteva 'èsse' ar mondo per quelle beschie,  rivó,  preciso preciso, nemmeno a fallo apposta, pròpio 'n duve 'un si sarebbe 'mmaginato nemmen 'n po' poino di poté rivà. Ar momento che fu lì, si fece 'nterrogazione di 'ome fusse potuto succede' 'n fatto 'osì. Lu', 'n pastoraccio di Treccolli, viensuto 'n quer di Pisa artro che fa quarch'òra d'òpra e 'mparà a ferrà e' 'avalli, senza che se n'accogesse nimo, era, con tutto 'r gregge, e tanto di 'ane, davanti al Re d'Italia! Robba da 'un crede'! Robba da svegliassi 'n tronco e accorgessi ch'era tutta 'na finta! No! Macché! Artro che finta! Era tutto vero, per davvero!


Si sa che a Pòrdo l'inventiva 'un ni mancava. Sicché, ammodino e cor vèrso bòno, 'ncominci
ó a di': "Sor Re, Sor Re, son Re anco me ma 'un so come fa' a dillo ar Re. Sor Re, Sor Re, son Re anco me ma 'un so come fa' a dillo ar Re. Sor Re, Sor Re, son Re anco me ma 'un so come fa' a dillo ar Re. " Fatto sta che 'r Re si destó e, anco, si 'ncuriosì. Tanto da fa' cenno a Pòrdo di fassi avanti, zitto zitto e senza fa' rumore. Appena 'r pastore fu a du' passi, 'r Re vòrse sapé chi fusse e come fusse rivato sino a lì senza ch'un se n'accorgessen né guardie e né  'r su' fattorone, grosso 'ome 'n mastino da guardia.


Pòrdo, a quer punto e' lì, ruzz
ó di ceppì'one e disse, con maraviglia der Re che lo stava a sentì, ch'era entrato 'n tenuta per cercà coniglioli da poté ferrà. Ma poi aveva visto 'r fattorone, che 'nvece di fa' 'r su' dovere,  s'era misso d'accordo co' bracconieri cignalai e, per ghièci lire, a quelli, n'aveva fatto portà via, ortre a tre cignali, anco du' daini e 'n cervo ch'aveva na trecciata di 'òrna  che pareva 'n rappi d'un faggio 'n inverno. E ni ribadì a bassa voce: "Sor mi' Re! M'intende? Per ghièci lire! Caro Sor mi' Re! Lui lì, sòdo 'ome dev'èsse', per artre ghièci lire, è bono vende' Voi e anco 'r Regio Regno! E io, Sor mi' Re, che stó qui a cerca coniglioli da ferrà, son matto da legà, ma son contento d'un èsse' sòdo 'ome quello! È più meglio èsse' matti, che èsse' sòdi!" A le guardie, sòde anco lòro, ar cancello, n'ho ditto ch'ero matto e, quelle, m'han fatto passà col le peòre a cor cane! Vedete, Sor mi' Re, a èsse' matti si pòle anco èsse' qui a chiacchierà cor Re.
Er fattore, sòdo, l'avete sentito anco Voi, 'un s'è accorto di nulla, nemmeno che Voi, Sor mi' Re, doppo che s'era ragionato 'nsième, Vi siete misso a fa' finta di dormì ar ciliegio... Sor mi' Re, date retta a 'n povero Re matto 'ome me, h
ó tanto bisogno di 'mparà a ferrà e' 'avalli per vedé d'avé quarche cosina da fa biascià a' mi po'i denti. Se mi fate Vostro fattore, Vi tièngo fede finacché 'un ci-avró più lume a l'occhi.

E da qui, per ònni  trottero, sodo di chiòrba, che capitava ne' paraggi, ni si diceva: "Te staresti bene a ferrà e 'oniglioli ne la piana di Sarrossore!"

TC - 23 ottobre 2016




Questa storia è inventata ed è solo frutto della fantasia dell'autore

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sabato 16 luglio 2016

Se 'un ènno matti, 'un ci si vogliano! (Collana: "Re" matto) - 1° racconto

Sono arrivato a casa dopo la solita giornata dura e con i soliti quasi duecento chilometri giornalieri sul groppone. Ho appena il tempo di parcheggiare la macchina, scendere e scaricare le mie tre valigette: quella degli attrezzi, un'altra dove tengo i documenti indispensabili e, l'ultima, che uso per la maggiore, dove c'è tutto il materiale dimostrativo che mi è necessario per esercitare la mia umile attività. Scendo dall'auto, sbatto per tre volte lo sportello di guida che non vuole mai chiudersi perché l'auto ha quasi vent'anni e non vede un carrozziere da oltre dieci, di anni. Inserisco la chiave nella serratura dello sportello per chiuderla. Non uso il pulsante centralizzato automatico posto sulla chiave perché da almeno cinque anni non funziona più. Con quello che costa una nuova chiave posso farci la spesa familiare per almeno due settimane. Perciò me ne guardo bene di sostituire la chiave stessa. Faccio per girare il medesimo utensile nel senso che mi permetterebbe di chiudere lo sportello dell'auto ma mi fermo. Tolgo la chiave e me ne vado lasciando la mia carretta a quattro ruote aperta e dicendo a voce alta, a me stesso, perché intorno non c'è nessuno: "Chi vòi che te la porti via! Vecchia 'om'è! Tutt'ar più, aperta, ci sta che domattina tu ci trovi drento, appoggiati 'n sur sedile, cinquanta euri per tenettela, la tu' macchina! Cotesta 'ostì, tutta 'òcci e bùi, 'un te la rubberebbeno nemmeno a pagalli, e' ladri!"

Per la prima volta in vita mia lascio la macchina aperta, arrivo alla porta di casa, infilo la chiave nella toppa girandola dalla parte opposta a quella che abitualmente giro per poter entrare. La porta non si apre. Riprovo girando la chiave sempre alla maniera di prima. La porta continua a non aprirsi. Suono il campanello e dopo poco la porta si apre. Semplicemente perché in casa c'è qualcuno che mi sta aprendo. Ma in testa mi frulla un mulinello che mi ripete all'infinito che la porta s'è aperta lo stesso senza che avessi usato la chiave. Per entrare in casa mia posso non usare la chiave. Cioè posso suonare il campanello. Se la porta si apre significa che c'è in casa qualcuno della mia famiglia che può aprirmi. Se la porta non si apre ho ancora due possibilità: una è quella di aspettare che arrivi qualcuno, l'altra , quella più scomoda, è di passare dalla finestra. In entrambi i casi posso entrare in casa senza usare la chiave. Eppure, alla stessa maniera, entro sempre in casa di un amico o di un conoscente, usando solo il campanello. Certo, in questo caso, se entrassi dalla finestra passerei per essere scambiato per un ladro. In casa mia posso entrare dalla finestra senza essere scambiato per un ladro ma, in casa di qualcun altro, l'entrare dalla finestra implica subito l'associazione all'essere un malintenzionato. Perché? Un amico o un vicino di casa non potrebbe essere contento di vedermi entrare in casa propria dalla finestra, come un gatto?

Con tutte queste po' po' di seghe mentali cerco solo di focalizzare che molte cose che usiamo e che ci battiamo per usarle, preservarle e conservarle, effettivamente non ci servono. Dal momento che personalmente posso lasciare l'auto aperta senza rischiare che me la rubino e posso entrare in qualsiasi casa, mia o di qualcun altro, senza disporre delle chiavi. Mi si è illuminato il pensiero. Cioè ho visto un'altra possibilità di fare e vivere le cose. Ho guardato da un'angolazione diversa. Mi sono detto: "O a che mi sèrveno tutti l'ammendìoli di 'uesto mondo e' qui? O che mi ci voglian tutti per davvero? No! Macché! Per davvero, 'un ci vòle nemmeno 'r vino per fa' l'aceto!"

"Così è (se vi pare)" fu il titolo che dedicò a una sua commedia, lo scrittore a me caro, Luigi Pirandello. Tutto è relativismo ontologico. "Si fa quer che si pòle e si fa quer che voglian quell'antri", dico io, nel mio idioma pisano. Soprattutto facciamo quello che vogliono gli altri. Chi sono questi "altri"? Sono tutti coloro che riescono a manovrare i fili dall'alto senza farsi vedere. Nessun burattino Pinocchio potrà uscire fuori dal suo circo senza essere manovrato. A meno che Pinocchio non diventi un bimbo vero. Allora potrà crescere, pensare, agire, costruire e, anche lui, da adulto potrà manovrare i suoi burattini. Tutto ciò è razionale e, quindi, normale.
Non si è mai sentito dire da nessuno, a parte che dal nostro buon toscano Carlo Lorenzini, in arte "Collodi", che un pezzo di legno, una volta divenuto burattino per mano di Geppetto, abbia la facoltà di scegliere di non andare scuola, di trasgredire ogni ordine, di credere che i soldi possano essere seminati nel campo dei miracoli e possano crescere e moltiplicarsi semplicemente innaffiandoli. Ma si sente definire spesso, riferendoci a qualcuno fuori dalla normalità, che quella tal persona è pazza. Spesso anche solo perché fa qualcosa di diverso dalla massa. Perché non ha regole di vita ed è fuori dalla normalità generale. Quindi, un individuo con un comportamento non "normale" genera un effetto che fa perdere il riferimento a chi si trova, per sua scelta o, senza rendersene apparentemente conto, nello standard comune dell'essere sano di mente. Mentre colui, non normale,  che ha generato tale insofferenza in tutti coloro che sono nella "norma", non si sente assolutamente anormale. Anzi, si sente un leone, il "Re" della situazione! Si chiede pure, dopo aver interpretato a suo modo molte cose, che cosa ci fa, lui stesso, da solo, fra una stragrande quantità di pazzi!
Quest'ultimo è il punto che innesca l'isolamento del nostro "Re Stesso" che  non desidera più  stare in simbiosi con la società esterna costituita solo da esseri razionali.

A volte però accade, che per una serie di circostanze fortuite (qualcuno di nome Jung,  che ci si trovò per primo a pensarle e a analizzarle, definì non casuali ma "acasuali"), ti inizino a  frullare in testa stringhe lunghissime di pensieri che, senza capire come, fanno innescare qualche scarica neuronale che riesce, in un lampo, a illuminare ogni viottolo oscurato dalle tenebre del non riuscire a vedere ciò che invece è ben evidente ai nostri occhi. A questo punto inizia la convivenza dell'illuminato (il non normale) con la massa dei razionali. Cioè con quelli che si spiegano ogni cosa, che sanno tutto quello che accadrà domani, che programmano tutte le loro cose già per il prossimo anno e sanno pure in quale ospizio passeranno la loro vecchiaia e con quali dei loro soldi si pagheranno l'ultimo viaggio di non ritorno. In particolar modo chi, razionalmente, si dichiara ateo o agnostico. Coloro che si meraviglieranno, che si indigneranno, che non crederanno, pur vedendo con i loro occhi le immagini che scorrono nel loro "bussolo" tecnologico, ben piazzato su un finto altare, in sala da pranzo o in soggiorno. Vedranno e non crederanno finché non saranno loro stessi i protagonisti di quello scempio. E allora qualcuno di loro, forse, se gli sarà possibile, se potrà averne il tempo, si ricorderà che in un passo della Bibbia c'è scritto di non dare perle ai porci, al posto delle ghiande. Perché i porci, non sentendole commestibili per loro stessi, potrebbero rivoltarsi e sbranare chi ha dato loro quel cibo prezioso che non è adatto a riempire la pancia di chi non è in grado di riconoscerne il valore.



O che vi posso di'! O che vi poss' arraccontà! Chi volete che lo stia a sentì 'n matto! E quando 'r matto si rimescola 'on quelli che 'un paian matti ma ènno più matti di lui lì, è vicina la fine der mondo! Perché ònni matto sano piglia 'r mondo 'ome viene, monta 'n sur carcionculo e 'ncomincia a girà contento. Tanto, chi volete che lo stia a sentì un matto? 'N matto pòle pregà 'r su' Credo perché è matto e se 'un è matto der tutto lo fa perché è rimasto ner Medioevo! 'N matto pòle di' tutto 'uello 'he pensa: tanto è matto! 'N matto pòle sta' sempre zitto senza di' nulla a nissuni: è matto! 'N matto pòle anco scrive' quarsiasi 'osa bòna o cattiva senza fa' danno a nimo: tanto è matto!
Tutto pòle fa' 'r matto, 'n der mentre e' sani, quelli normali, quelli difesi da tutti e' più matti di 'uelli ch'ènno matti 'n po' po' o tanto, possano stiaccià cento persone cor un camio! Fanne morì tanta, di gente, per avé sbagliato a fa' corre' du' treni 'n sur solito binario! Possano sparà all'omeni, alle donne e a bimbetti 'ome se fusseno filunghelli! Pròpio 'n der mentre, 'ui, si vòle fa' chiude' la 'accia, si difende 'r cane e 'r gatto e  'un si mangia più la ciccia perché e' vegani ci voglian fa' doventà beschie da erba e da rape...

O gente! Ma se 'un ènno matti, è pròpio vero! 'Un ci si vogliano!

E l'angiolino è lì che piange. Perché anco a lu', 'un ci 'rede più nissuni. A parte 'uarche "Re", matto!


TC


mercoledì 13 luglio 2016

Eppure... son nato mezzadro.



Mi sento 'n leone! Utimamente, doppo cinquanta'uattranni, hó capito 'ome funziona 'r mondo! E' gira da sé! Un gran carcionculo(*1) che gira sempre 'n su sé stesso! Evvaiii!!! Son fruido 'ome l'acqua che vien giù dar vallino(*2). Brutto di fòri ma bello di drento!

(*1): giostra del lunapark

(*2): torrente di montagna


Nato mezzadro, ho combattuto per anni cercando la possibilità di migliorare la mia posizione economica e sociale. Ogni volta che ho quasi raggiunto un traguardo per me e per la mia famiglia, la meta si è  sempre allontanata repentinamente. Dopo l'ultimo intervento chirurgico di quasi un anno fa mi sono arreso.  Vivo alla giornata, non faccio programmi, seguendo ogni giorno l'andamento del fiume che scorre.  Come è accaduto stamani, non mi meraviglio più. Sono partito per fare una cosa e, invece, ne ho dovuto fare molte altre, a eccezione di quella che avrei voluto fare. Quando quasi a mezzogiorno stavo per fare quella cosa e l'avrei fatta veramente, ho bucato una gomma dell'auto... E anche stamani l'appuntamento è saltato. Incredibile: dalle 8,30 alle 13,00 non c'è stata alcuna possibilità! Ma non mi ci arrabbio più. Se un giorno potrò, scriverò e racconterò questi buffi eventi. Tutto sommato, nella loro, talvolta piccola o talvolta grande, tragicità, sono anche divertenti. Se a questo punto emergerò significherà che era necessario arrivare al punto di apprendere tutto questo. Sennò vuol dire che devo rimanere così. Con le scarpe e i vestiti di seconda o terza mano, l'auto scassata, tanti debiti diluiti nel tempo, gli indurimenti muscolari delle mie zone dell'addome tagliate dal bisturi e ricucite, insieme a  tutti gli eventi accaduti: incomprensibili alla mia piccola mente. L'esito finale locale risulta essere sempre una mezza soluzione. Come la "mezzadria".  Non si è né padroni e né servi, né sani e né malati, né pesce e né carne: solo una via di mezzo con poco senso e poca sostanza ma dentro un immenso contenitore dove tutte le cose di questo mondo terreno diventano infinitesime di fronte alla grandezza dell'umiltà e del sentimento umano, quello vero, quello sincero che non chiede niente in cambio. Oggi sono felice e lo sarò anche domani, dopodomani e, credo, sempre. Mi ci sono voluti quasi cinquantaquattro anni per capirlo... Meglio tardi che mai! Eppure, non per niente, son nato mezzadro. Ma gli eventi si comprendono con fatica e solo dopo averli vissuti per lungo tempo. Solo così il nocciolo della questione, penetrando a fondo nella carne lacerata, attraverso il dolore, riesce ad avviare quel processo che purifica la nostra breve esistenza terrena. Il punto di arrivo, come sosteneva il grande Pirandello, è quello di girare verso la chiusura la chiave della ragione e aprire quella della pazzia sottile. Quella pazzia che ci aiuta a separarci dal calcolo razionale e dall'esigenza di programmare il nostro futuro, avvicinandoci alla libertà di vivere veramente e di essere felici. Quel tenue filo di sana spensieratezza che non ci fa essere ereditieri del grande "tritatutto".


TC

domenica 19 giugno 2016

Adduralla



C'era 'na vòrta 'n òmo di Treccolli. Per èsse' più precisi, c'era 'na vòrta 'n pastore di Treccolli che quando era ne' su' ulivi a lavoralli o portava le su' pèore a pascolà, 'n quarsiasi posto 'he fusse, 'n monte o 'n piano, onni due per due, urlava a tutta gargana sempre l'istessa 'òsa a questa maniera e' qui: "Addurallaaa! Come faraiii!"
A mattinate e a serate 'ntere: "Addurallaaa! Come faraiii!". Ma 'un era ammattito, era uno normale, come tutti noiartri.

Allòra. Dovete sapé che Adduralla, che ci aveva 'n nome e 'n cognome 'ome tutte le persone di 'uesto mondo, viènse soprannominato a quer modo e' lì perché, lo 'apisce anco 'n bischero, urlava sempre, a 'uattro vènti, 'uelle tre parole che s'è ditto prima. Ma 'r perché urlasse sempre quer trittì'o, era perché, per lui lì, quer che ni successe, fu 'na 'òsa che 'un ni fece più capì nulla da la maraviglia. Fu così che ni s'abbaglió 'r lume da l'occhi e ni si sciòrse la favella da 'un poté più smette' di di' quella 'òsa e' lì. (E questa 'un è 'na storia 'nventata, come tante di 'uelle che scrivo, ma è vera! Più vera di 'osì, si pòle anco morì, 'un ce n'è! A me me l'ha arraccontata, 'na vòrta sola, ir Gòccio quand'ero bimbetto e posso esséne certo che quello che diceva 'r Gòccio era sempre vero. Perché 'r Gòccio mi diceva sempre che le 'òse van raccontate com'ènno state e che le bugie han sempre le gambe 'orte e 'r naso parecchio lungo 'ome quello di Pinocchio. E a me, Pinocchio, me lo lesse tutto, di cima a fondo e per la prima vòrta, pròpio 'r Goccio, prima che 'mparassi a lègge'. Poi, Pinocchio, lo rilessi tutto per conto mio a sett'anni. Quando 'ncominciai a capì quer che leggevo. E 'un me li sono più scordati. Né Pinocchio e né 'r Gòccio. Ne la storia che è qui ar seguito, ci sta che ci sia quarche 'mperfezione perché quando 'r Gòccio, già parecchio 'n età, me l'arraccontó ero 'n rantacchietto. Sicché ènno passati parecchi'anni...)

Ma è meglio 'ncomincià dar princìpio. Da Brezza, 'r figliòlo d'Adduralla e da la moglie Gemmina. Che faceva le riottine piccine piccine, tanto piccine piccine com'era piccina piccina le'. 
Brezza era figliòlo d'Adduralla ma 'un era figliòlo di Gemmina. Pòo doppo che Brezza vidde 'r lume der sole, ne la lenza de l'orto, 'n tra la brezza fresca fresca de la mattinata, Adduralla restó vedovo. Quello, per l'òmo, fu' 'r primo 'órpo. 'R seondo 'órpo ni toccó quando s'accorse subito che Brezza, 'n der mentre 'he cresceva, tanto 'ntero, 'un vieniva su. E' tempi eran quelli der dopo l'utima guerra e, di guadagni, 'n su poderi, ce n'eran pò'i o punti. Gemmina apparì per caso da la lucchesia. Aveva scavarcato 'r monte d'inverno, a piedi scarzi, per vienì a fa' òpra a Treccolli 'ome coglitora d'ulive. Fece 'apolino a l'uscio di 'asa, vidde 'n òmo e 'n bimbetto soli ner canto der fòò, 'nuna 'ucina co' muri neri come la pece, da tanto eran affummìati. L'òmo rimestava ner paiolo ch'era sopra e' 'arboni accesi, senza fiamma, di du' ciòcchi d'ulivo. Rimestava ner sieri der latte. Ma 'r cacio 'un s'accagliava. Gemmina guardó 'n po' po' l'òmo e anco 'r bimbetto che ruffolava ner sudicio 'n tra mattoni de la pavimentazione di 'ucina. Si fece avanti ar paiolo, levó 'r mestulo da la mane de l'òmo e cor vérso bòno di 'hi sa come si fan le 'òse, 'n du' òre, fece cacio, riòtta, governó 'r bimbetto e lo rimisse 'n sèsto come fusse rinato per la seonda vòrta. Gemmina 'un sortì più fòri da quella 'asa finacché la su' favella 'un viènse a èsse' spenta da segni der tempo. N'era arriuscito di 'onvince l'òmo a 'ndà a lavorà 'n Francia per poté guadagnà quarccheccosa che ni facesse tirà avanti la baracca, 'nsieme a 'un figliòlo bòno, come quer pane che le' sapeva sfornà fresco, e dorce di chiòrba, come la marmellata di more che, sempre le', sapeva fa' a regola d'arte. (Ve lo posso assiurà ch'era bòna e dorce, perché me la fece sentì più d'una vòrta, la su' marmellata di more! Com'era bòna quella di 'astagne. Che faceva col la su' ricètta lucchese. Oggigiorno, di 'uelle marmellate e' lì, 'un se ne trova più nemmeno a cercalle cor lumicino.).

Ner farettempo, Gemmina, ch'aveva sposato quell'òmo, tiró su bene anco Brezza e 'un ni fece mai mancà niente, anco quando 'r su' marito stètte a lavorà 'n Francia. 

Quando l'òmo tornó a casa, tre anni doppo, aveva racimolato quarche sòrdo. 'Un eran tanti, que' sòrdi, ma sarebbeno bastati per tutte e tre e per campà benino quando 'r podere 'un avesse portato raccòrto. Anco Gemmina era stata brava però. E de le du' pèore e 'n montone ch'aveva lasciato l'òmo prima di partì, le' aveva fatto cresse' n greggetto di peore con tanto d'agnelli ar seguito e aveva anco rinnovato 'r montone co' 'n agnellotto giovane da monta. 

L'òmo si guardó d'intorno, fra tutto 'uer ben diDDio, piglió 'n bastone sòdo, per facci da piede di pòrco, s'inginocchió per la terra, tiró su 'n mattone da la pavimentazione di 'ucina dietro ar canto der fòo, ci scavó 'n bùo sotto col le mane, ci misse drento e' sordi ch'aveva fatto 'n Francia e ritappó 'r bùo cor mattone ch'aveva levato prima. Poi, cor gregge bello fresco ci 'ncomincionno a fa': cacio, riòtte e agnelli da vende' e sòrdi bòni che 'ndavano sempre di più a riempì 'r bùo sotto ar mattone di 'ucina.

Un giorno, che n'era toccato di scavà de l'artro ner bùo per facci più posto, s'arrrizzó e urló: "Addurallaaa!!!" E finì lì, così.

Verso 'r '70, viènse 'n personaggio dar piano e, piano piano, 'ncominció a fa' 'micizia col la famiglia. Era uno 'struito, uno che sapeva le 'òse der mondo. Onni tanto arzava 'n po' po' 'r gomito e si 'mbriàava, ma doppo du' ore la sbornia se l'era belle e sgrullata di dosso e rièra vispo e fresco. A parte 'r vizio der be', era 'n brav'òmo. Un giorno s'accorse der bùo ch'era sotto ar mattone e di 'uer che c'era drento. Arrìunì tutta la famiglia amìa e a tòno di rimprovero disse a tutti che tené que' 'uarini drento a quer bùo era da gente der medioèvo. Gira che ti rigira, convinse tutti a mette' 'r gruzzolotto 'n BòTTe der Tesoro. Quando, a quer tempo, pagavan l'interessi der venti per cento e anco di più, e subito!


E fu così che doppo 'uarch'anno viènse 'r battesimo d'Adduralla. 'N òmo che 'n vita sua 'un aveva mai visto artro che la miseria, 'uni smisse più di di' e urlà a 'uatto venti quer che si voleva di' per sé:


"Addurallaaa! Come faraiii!" (Se un giorno, questo bèr gió'ino, 'ndésse a finì?)

TC

La chiave per comprendere quel folle urlo di gioia e per salutare Brezza, per l'ultima volta.
Ciao, Brezza!

domenica 1 maggio 2016

Quando per andare a Lucca si passava da Tre Colli di Calci...



Da Calci a Lucca passando per Tre Colli...


Quando il barroccio era il solo mezzo per trasportare le cose e la buona gamba l'elemento primario per fare spostare la gente, non si percorreva la strada migliore ma quella più breve. La più adatta alle ruote dei carri, alla resistenza degli animali da traino e anche al passo delle persone.


C'erano vie lastricate, come quella ancora conservata e raffigurata nella foto, (zona: Tre Colli -Vallebuia- S.Lucia) costruite appositamente per facilitare la rotazione delle ruote di legno dei carri. C'erano pure viottoli e sentieri, ancora più brevi, da poter essere percorsi a piedi.


TC - 1 maggio 2016




Ecco, di seguito, una carrellata di foto scattate nel breve percorso di una piccola parte della nostra bella Valgraziosa di Calci!

Da Castelmaggiore, frazione di Calci, si raggiunge  Vallebuia e si prende la via Santa Lucia per Tre Colli...

Un vecchio aldio: canale che serviva a incanalare l'acqua di un torrente (vallino) e convogliarla alla grande ruota a cassetta che alimentava il moto delle sale (insieme di ingranaggi e elementi di trasmissioni del moto per la rotazione delle macine).


La parete di un vecchio mulino che conserva ancora l'impronta dove ruotava la ruota a cassette.

La Verruca di Calci vista da un angolo insolito...

Un tratto della via lastricata ancora conservata...

Particolare della via lastricata...

Altra veduta della Verruca di Calci, da dove veniva estratta la durissima pietra verrucana usata per la costruzione di macine da mulino...

Alcuni asini al pascolo...

Ancora la Verruca da un'altra angolazione...

Il sentiero...

Il proseguire del sentiero...

Uno scorcio di panorama. Sullo sfondo e visibile la Torretta di Caprona...

La località Culminezza di Tre Colli di Calci...

Il torrente Vallino di Bisantola, a Tre Colli...

Cascatella del Vallino di Bisantola...

Da Culminezza verso la Capanna dello Zoppo di Tre Colli...

 La Capanna dello Zoppo...

Il Santuario di Tre Colli con il grande cedro del Libano...

Da Tre Colli si guarda Livorno e il mare...

Una visita al Santuario...

Fine del giro con l'inizio di quella che fu una delle strade del commercio fra la Repubblica di Pisa e lo Stato di Lucca...

L'inizio della vecchia strada per Lucca, nel centro della foto...


Vi aspettiamo a Calci!

VALGRAZIOSA - COMUNE DI CALCI (PI) - CAP: 56011


lunedì 21 marzo 2016

Tre giorni fuori porta





Erano poco più delle sette e quella mattina, Franco e Laura partivano, con la loro utilitaria a GPL, e si dirigevano da Calci, dove risiedevano, verso la direzione di Roma capitale. Lui saldatore specializzato in un cantiere domiciliato presso i Navicelli pisani e lei portalettere in servizio precario all'ufficio postale di Lari.  Entrambi coronavano il sogno sofferto per cinque anni. Sì, un lustro di tempo per permettersi il lusso di scappare dal solito tran tran quotidiano e fare una breve vacanza a poco più di trecento chilometri di distanza che, per loro, era equivalente a un espatrio fuori continente. 
"Laura in quale pensione hai prenotato, a Roma?", chiese Franco. La giovane donna, con  voce felice e tranquilla, rispose che il portale web consultato le aveva consigliato l'albergo Kinzica in piazza Garibaldi nella zona delle Mura Aurelie, che univa il buon prezzo della camera matrimoniale con il servizio di  mezza pensione inclusa. "Senti, ma i bimbi, così parcheggiati per tre giorni dai nonni, quando si sveglieranno e non ci troveranno, si spaventeranno?", aggiunse Laura rivolgendosi al suo uomo. "'Un ti sta' a preoccupà. Senza su' ma' e su' pa', vedrai com'ènno più contenti, quando si svegliano!" Tuonò Franco nel suo dialetto pisano e aggiunse: "Poi, noiartri si sta fòri tre giorni, mì'a tre mesi! Era tanto che si diceva e, dai dai, ci s'è fatta!" Laura lo guardò con ammirazione e rispetto e si rilassò, godendosi la tranquillità del viaggio. In poco più di tre ore, furono a destinazione.
Appena entrati nella città eterna, il piccolo e indispensabile Tom Tom cominciò con il suo incessante "Ora gira a dex, alla rotonda prendi la seconda uscita, poi gira a sinistra" e così via finché non fu chiaro che la destinazione era stata raggiunta.

Lo stupore si dipinse all'istante sulle facce di tutti e due. Mister Tom Tom li aveva fatti fermare nella parte finale di via Benedetto Croce. Sulla loro destra avevano i licei statali e in fondo alla strada c'era Piazza Garibaldi. Dalla parte opposta, avevano Piazza Guerrazzi. "O... che passata è, questa e' qui!" Disse Franco guardando fisso Laura. Poi aggiunse:  "Mi par d'èsse' nella mi' Pisa! Se, 'n su la piazza qui davanti, 'un ci fosse la pensione Kinzica 'n der mezzo, parrébbe d'èsse rimasti a casa! Si vede che noiartri, Pisa, 'un si pòle lascià. Lo vedi, Laura, ci viene drèto anco 'n sino a Roma. Se si va 'n San Pietro, allòra, ci sta anco di trovacci drento la Certosa di 'Arci!". A quel punto Laura, ci fece una risata e convenne che fosse bastato che non uscisse fuori qualche somiglianza di luogo con Lari, "sennò", si disse, "Bisognerà che consegni la posta anche qui!" e rise, fortemente e a lungo. A Franco piaceva molto la sua donna quando rideva così, la vedeva più bella e più desiderabile.

Parcheggiarono la macchina nel garage della pensione e, con pochi bagagli, si recarono al ricevimento porgendo all'impiegato la prenotazione web acquisita a prezzo super promozionale. La pensione Kinzica, a due stelle, si presentava molto bene e più che un albergo economico sembrava un grande Hotel a cinque o sei stelle. La sala d'accoglienza era enorme e alla ricezione dei clienti c'erano quattro persone, due donne e due uomini, molto gentili, che davano del signor e della signora a chiunque entrasse. Dopo le convenute registrazioni di routine, la coppia pisana, venne accompagnata da due fattorini in tenuta rossa e... tanto di croce bianca... nello stupore più completo, in un lussuoso appartamento con vista sul Tevere. 

Appena i fattorini furono usciti chiudendosi dietro la porta, Laura saltò sul letto esclamando "Da non credere! Uno schianto di camera! Bella, bella, e arribella!". "Lo pòi dì' forte!" aggiunse gridando Franco. "Guarda 'uà, che po' po' di lavorìo! Da la finestra, si vede anco la torre che pènde! Ma quello laggiù che scorre,  è 'r Tevere o l'Arno?". La donna disse al marito di smettere di scherzare e usando il suo modo solito che sapeva che cosa voleva, per un paio di ore, l'attenzione della coppia si concentrò su ben altre meraviglie della natura.

Erano ormai le cinque del pomeriggio e dopo il meritato riposo, mentre Laura si faceva una doccia calda per poi prepararsi ad uscire, Franco se ne uscì dall'appartamento per fare un giro veloce intorno al perimetro del Kinzica dove avevano alloggiato. Dopo poco meno di un quarto d'ora, l'uomo era di nuovo alla porta della camera numero sessantanove. Lo stesso numero di appartamento dove, alcune ore prima, i due fattorini accompagnatori, avevano accompagnato la coppia. Franco bussò alla porta per farsi aprire dalla moglie ma nessuno venne a farlo. Ribussò più volte. Niente e nessuna risposta dall'interno. Provò a girare la maniglia e la porta, che non era chiusa dal'interno, si aprì subito. Di nuovo, lo stupore, si dipinse sulla faccia di Franco.  L'appartamento bello non c'era più. Davanti a lui si presentò una piccola e malamente arredata cameretta e Laura, probabilmente, era sempre sotto la doccia. Infatti, nel medesimo frangente, la donna uscì dal bagno, vide Franco e dette un urlo da far paura. Ma non era Laura. Era un'anziana signora romana che, dallo spavento, urlava come una pazza. Franco uscì dalla camera correndo verso la portineria che era al piano terra, quasi volando le scale, in discesa, da quel quinto piano dove si trovava. Si presentò davanti al bancone della sala di ingresso e, agitato, rivolgendosi a tutti e quattro gli impiegati, disse loro che alla porta sessantanove, al posto dell'appartamento e della propria consorte, aveva trovato una cameretta con dentro una vecchia donna urlante. Una delle addette alla reception, sorridendo, e vedendo arrivare l'uomo dalla parte opposta della sala, gli spiegò che sicuramente era entrato nell'ala opposta, quella della zona economica dell'albergo dove risiedevano temporaneamente alcuni anziani del luogo senza dimora fissa e ospitati sotto retta del centro sociale, in attesa di una sistemazione adeguata alla loro condizione. Il numero della stanza non è altro che il novantasei che si è capovolto perché il nostro operaio non ha ancora rimesso uno dei due chiodini di fissaggio e, il numero, ruota liberamente su se stesso.
Chiarito l'equivoco, Franco torna, prendendo la direzione giusta, da Laura. Ma quest'ultima, nell'appartamento non c'è. "Sarà sortita a cercammi" si disse fra sé. Infatti, dopo pochi secondi, il suo smartphone comincia a vibrare e sul piccolo monitor compare la foto della sua Laura. "Ma dove sei finito? Son due ore che ti cerco!" esplose la giovane donna. "Rivo subito, son qui alla porta der sessantanove, perché son ito prima ar novantasei, ma s'era rigirato 'r numbero... 'Nsomma, te lo dì'o doppo, sennò, òra, perdo 'na giornata 'ntera per raccontatti 'r fatto! Dimmi 'n dove sièi che 'n du' balletti son lì da te!".  Franco tanto disse e tanto fece. In un minuto raggiunse Laura, alla porta d'ingresso della pensione Kinzica,  che aveva già in mano i biglietti della metropolitana per andare direttamente in Piazza San Pietro, in Vaticano. Per muoversi nella città usavano le indicazioni che il servizio mappe della compagnia telefonica forniva gratuitamente dal cellulare di Laura. Scesero alla fermata segnalata, uscirono dal tunnel della metropolitana, salirono i gradini della scala e davanti ai loro occhi si materializzò la grande piazza. Ma non era Piazza San Pietro, era Piazza dei Miracoli e c'era anche il solito turista a far finta di sorreggere il campanile pendente prima di farsi immortalare nell'assurda posizione. "Gao! Arrigao 'n antra vòrta e anco artre due o tre vòrte di seguito!" Disse Franco, mentre Laura lo fissava allibita dicendo: "Dai, Franco. Come hai fatto a farmi uno scherzo così, sembra tutto vero!" Ma la torre pisana rimaneva lì, davanti a loro insieme alla cattedrale e al suo battistero...
L'uomo ebbe solo il tempo di dire: "Te l'avevo detto io che dalla finestra del Kinzica, l'avevo vista, la torre. Ma te m'hai dato del bischero e poi hai voluto ruzzà...". I due non fecero in tempo a dirsi altro che... un urlo li destò entrambi, all'improvviso, senza che essi avessero il tempo di capire qualcosa.
"Babbooo! Mammaaa! Gigi m'ha detto che sono piccina e brutta! Gigi è cattivo! Diteglielo anche voi che è cattivo!..." In un baleno Matilde fu in mezzo a Franco e Laura, nel lettone matrimoniale, mentre la sveglia emetteva un incessante, fastidioso e intermittente"bip bip, bip bip, bip bip...".
Franco si alzò dal letto, si stirò bene e si recò nella cameretta dei bambini ad apostrofare Pavolino, come chiamava lui il figlioletto. Laura abbracciò la bambina rassicurandola con un "Ma che ti dice Paolo che è lui più piccolo di te di un anno. Vieni qui con me che ti racconto una storia bella bella. Sai dove eravamo, poco fa, io e babbo? Eravamo a Roma!" , "Allora hai visto quell'omino vestito di bianco che viene sempre alla televisione, mamma? Quello che chiami il papa?" chiese Matilde a Laura. "No, bimba mia bellissima. Ho visto la nostra  torre di Pisa e basta." "E poi?" insisté la bimba. "Poi,  è piombato qui nel lettone il mio dolcissimo terremoto di bimba!" e Laura si strinse a sé la piccola Matilde mentre un nodo di emozione le fece inumidire i grandi occhi neri.

Due ore più tardi, nei pressi del Castello di Lari, immerso nella campagna toscana, Laura cercava di recapitare una raccomandata, mentre il cane lupo da guardia le abbaiava contro dall'interno con fare minaccioso. Franco, in quel preciso momento, con il cannello acceso dell'ossido acetilene, se ne stava aggrappato a saldare sopra un'impalcatura sulla prua di uno yacht, in costruzione, fermo in un cantiere della darsena pisana. Entrambi pensando, ciascuno, a una certa Kinzica de' Sismondi... (*)


(*) Eroina pisana durante l'invasione saracena intorno all'anno 1004 o 1005 e che la leggenda pisana volle rappresentare con un frammento di altorilievo di una matrona romana, fuori luogo, se si pensa che l'opera sia stata stimata per appartenere al III secolo d.C.  

Se la nobile pisana Kinzica, che è il personaggio più importante, per Pisa, nella sfilata storica delle Repubbliche Marinare, fosse stata romana, allora può stare in piedi anche il sogno di Franco e Laura... O noe? Come si dice noiartri pisani!


Copyright Tiziano Consani  - marzo 2016
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